Chiunque, se volesse, potrebbe fotografare persone, animali e cose e portarsene dietro il ricordo per sempre, come fossero vivi, eterni addirittura. Non è la stessa cosa per le emozioni, per i sentimenti,
per le passioni, per le gioie e per le delusioni, per i piccoli e per i grandi eventi della vita quotidiana, soprattutto quelli impropriamente considerati più comuni, quelli che si dimenticano prima
perché non sono materializzabili in immagini, perché sono fatti di pensieri, sono invisibili come l’anima, sono spirito. Il fatto di non potere ricordare tutto della propria vita – se non nella mente dentro la quale, col passare delle stagioni, le cose prima si mescolano, poi, silenziosamente, si indeboliscono, infine si perdono – mi ha sempre un po’ angosciato. Già nell’adolescenza, quando cominciai ad avvertire che certi dettagli delle impressioni infantili, o legate alla fanciullezza, si andavano lentamente, ma inesorabilmente, spegnendo, cominciai ad avventurarmi nei primissimi tentativi di sigillare in racconti, di tradurre in parole, che avrei voluto rimanessero indelebili, quelle che cominciavo a considerare sensazioni fascinose ma volatili della mente: il cadere della neve, la pioggia battente e gocciolante sui vetri, il fischio del vento fra i rami e fra i tetti delle case, un pomeriggio di sole bollente, una passeggiata con gli amici, l’odore di un prato o della limpida acqua del fiume, le vibrazioni irripetibili del primo amore, la morte di una persona cara, l’arrivo di un nuovo cagnolino in casa o di un gattino, la misteriosa magia dei giochi della fanciullezza e dell’adolescenza. La cosa mi riusciva solo attraverso frammenti poetici o attraverso schegge di pensieri, di rapide emozioni, di improvvisi dolori, di delusioni buttate lì in informali pagine di diario. L’impresa narrativa di carattere sistematico, che era nelle mie intenzioni, mi risultava complessa, non riuscivo a raccontare in modo continuo fino a riprodurre il senso nascosto delle vicende, che mi si accavallavano nella penna, si contrastavano, si ostacolavano duramente, non mi riusciva, insomma, di sintetizzare i tanti eventi, mi accorgevo, con dolore, misto ad una strana sensazione di impotenza, che non era come riprendere singoli pezzi di una realtà con la macchina fotografica o con la cinepresa, come ero aduso fare: con le parole bisognava cogliere tutto e descrivere, bisognava che esse sapessero, di volta in volta, trasformarsi in riso e in pianto, in gioia e in tristezza, nei colori più vari, bisognava che prendessero corpo ed avessero un’anima, per dare linfa di vita alla narrazione, bisognava che fossero in grado di produrre armonia attraverso l’evolversi ininterrotto dei suoni, quasi che le singole lettere e le singole sillabe fossero note, sequenze logicamente alchimizzate nei ritmi, bisognava che esse fossero trasparenti e comprensibili al punto tale da potere suscitare nel lettore la sensazione di una sua piena partecipazione emotiva allo scandire lento degli eventi. Provavo e riprovavo, riempivo fogli e poi li accartocciavo, la mia era la forza di chi non sapeva rinunciare anche di fronte alla sua evidente debolezza, qualcosa mi diceva che un giorno ci sarei riuscito ma che il lavoro su di me, che mi attendeva, sarebbe stato duro, durissimo. Una cosa che intuivo era che bisognava imparare
ad affinare la conoscenza del mondo interiore, bisognava perfezionare le capacità di osservazione, di indagine e di catalogazione dei dati fenomenici attinti al mondo esteriore, bisognava imparare a capire le psicologie nascoste delle persone e delle cose, il linguaggio di quel grande mistero che è la natura, ma, soprattutto, bisognava attendere che gli eventi non fossero più parte di una arida cronaca, che alimentassero respiri e visioni più ampi e complessi, liberati dai vincoli delle comuni concezioni, che sapessero esprimere la forza e il vigore nascosti delle energie dell’anima. Bisognava attendere quell’uomo che ancora non ero. Poeta, sia pure in maniera acerba, artigianale, lo seppi diventare prima, mi veniva più spontaneo esserlo, era compatibile con la mia natura introversa, solitaria, perversa esploratrice di deserti, amante del raccoglimento, di quanto di sublime ti può condurre il silenzio. Razzolavo con dimestichezza fra i versi che mi sorgevano spontaneida un luogo misterioso di me che desideravo sempre di più di raggiungere per conoscerlo, per snidarlo dal buio in cui era nascosto. Riuscii anche a pubblicare una serie di raccolte tra il 1994 e il 2008, che ebbero il merito di mettermi a confronto prima con la parola intesa come essenza e poi con il mondo fuori di me, con i lettori, da alcuni dei quali ricevetti e ricevo incoraggiamenti per continuare a scrivere. L’attesa non è stata vana, quello che di me aspettavo mi ha, intanto, raggiunto, mi si è reso visibile e ne odo la voce, mi parla continuamente e mi detta, mentre io, ormai, scrivo in maniera quasi automatica, il tempo mi scorre lungo le dita e si traduce in parole. Scopro soltanto adesso che l’esercizio continuo, insistente e sistematico della poesia, mi è stato di guida in tante cose, mi ha abituato a vedere il verbo come evento, come atto creativo, me ne ha fatto cogliere le armonie, le essenze più nascoste, mi ha allenato ai difficoltosi percorsi dentro l’anima, che non è cosa facile, ma mi ha aperto, finalmente, anche le porte della narrativa, mi ci ha avvicinato a piccoli passi, con amore attento e paziente. Alcuni racconti – già contenuti in una pubblicazione in proprio del 20091, destinata ai soli lettori della Valle Telesina – rivisitati e arricchiti nel contenuto, risultano riproposti in questo mio ultimo lavoro insieme ad altri inediti.
per le passioni, per le gioie e per le delusioni, per i piccoli e per i grandi eventi della vita quotidiana, soprattutto quelli impropriamente considerati più comuni, quelli che si dimenticano prima
perché non sono materializzabili in immagini, perché sono fatti di pensieri, sono invisibili come l’anima, sono spirito. Il fatto di non potere ricordare tutto della propria vita – se non nella mente dentro la quale, col passare delle stagioni, le cose prima si mescolano, poi, silenziosamente, si indeboliscono, infine si perdono – mi ha sempre un po’ angosciato. Già nell’adolescenza, quando cominciai ad avvertire che certi dettagli delle impressioni infantili, o legate alla fanciullezza, si andavano lentamente, ma inesorabilmente, spegnendo, cominciai ad avventurarmi nei primissimi tentativi di sigillare in racconti, di tradurre in parole, che avrei voluto rimanessero indelebili, quelle che cominciavo a considerare sensazioni fascinose ma volatili della mente: il cadere della neve, la pioggia battente e gocciolante sui vetri, il fischio del vento fra i rami e fra i tetti delle case, un pomeriggio di sole bollente, una passeggiata con gli amici, l’odore di un prato o della limpida acqua del fiume, le vibrazioni irripetibili del primo amore, la morte di una persona cara, l’arrivo di un nuovo cagnolino in casa o di un gattino, la misteriosa magia dei giochi della fanciullezza e dell’adolescenza. La cosa mi riusciva solo attraverso frammenti poetici o attraverso schegge di pensieri, di rapide emozioni, di improvvisi dolori, di delusioni buttate lì in informali pagine di diario. L’impresa narrativa di carattere sistematico, che era nelle mie intenzioni, mi risultava complessa, non riuscivo a raccontare in modo continuo fino a riprodurre il senso nascosto delle vicende, che mi si accavallavano nella penna, si contrastavano, si ostacolavano duramente, non mi riusciva, insomma, di sintetizzare i tanti eventi, mi accorgevo, con dolore, misto ad una strana sensazione di impotenza, che non era come riprendere singoli pezzi di una realtà con la macchina fotografica o con la cinepresa, come ero aduso fare: con le parole bisognava cogliere tutto e descrivere, bisognava che esse sapessero, di volta in volta, trasformarsi in riso e in pianto, in gioia e in tristezza, nei colori più vari, bisognava che prendessero corpo ed avessero un’anima, per dare linfa di vita alla narrazione, bisognava che fossero in grado di produrre armonia attraverso l’evolversi ininterrotto dei suoni, quasi che le singole lettere e le singole sillabe fossero note, sequenze logicamente alchimizzate nei ritmi, bisognava che esse fossero trasparenti e comprensibili al punto tale da potere suscitare nel lettore la sensazione di una sua piena partecipazione emotiva allo scandire lento degli eventi. Provavo e riprovavo, riempivo fogli e poi li accartocciavo, la mia era la forza di chi non sapeva rinunciare anche di fronte alla sua evidente debolezza, qualcosa mi diceva che un giorno ci sarei riuscito ma che il lavoro su di me, che mi attendeva, sarebbe stato duro, durissimo. Una cosa che intuivo era che bisognava imparare
ad affinare la conoscenza del mondo interiore, bisognava perfezionare le capacità di osservazione, di indagine e di catalogazione dei dati fenomenici attinti al mondo esteriore, bisognava imparare a capire le psicologie nascoste delle persone e delle cose, il linguaggio di quel grande mistero che è la natura, ma, soprattutto, bisognava attendere che gli eventi non fossero più parte di una arida cronaca, che alimentassero respiri e visioni più ampi e complessi, liberati dai vincoli delle comuni concezioni, che sapessero esprimere la forza e il vigore nascosti delle energie dell’anima. Bisognava attendere quell’uomo che ancora non ero. Poeta, sia pure in maniera acerba, artigianale, lo seppi diventare prima, mi veniva più spontaneo esserlo, era compatibile con la mia natura introversa, solitaria, perversa esploratrice di deserti, amante del raccoglimento, di quanto di sublime ti può condurre il silenzio. Razzolavo con dimestichezza fra i versi che mi sorgevano spontaneida un luogo misterioso di me che desideravo sempre di più di raggiungere per conoscerlo, per snidarlo dal buio in cui era nascosto. Riuscii anche a pubblicare una serie di raccolte tra il 1994 e il 2008, che ebbero il merito di mettermi a confronto prima con la parola intesa come essenza e poi con il mondo fuori di me, con i lettori, da alcuni dei quali ricevetti e ricevo incoraggiamenti per continuare a scrivere. L’attesa non è stata vana, quello che di me aspettavo mi ha, intanto, raggiunto, mi si è reso visibile e ne odo la voce, mi parla continuamente e mi detta, mentre io, ormai, scrivo in maniera quasi automatica, il tempo mi scorre lungo le dita e si traduce in parole. Scopro soltanto adesso che l’esercizio continuo, insistente e sistematico della poesia, mi è stato di guida in tante cose, mi ha abituato a vedere il verbo come evento, come atto creativo, me ne ha fatto cogliere le armonie, le essenze più nascoste, mi ha allenato ai difficoltosi percorsi dentro l’anima, che non è cosa facile, ma mi ha aperto, finalmente, anche le porte della narrativa, mi ci ha avvicinato a piccoli passi, con amore attento e paziente. Alcuni racconti – già contenuti in una pubblicazione in proprio del 20091, destinata ai soli lettori della Valle Telesina – rivisitati e arricchiti nel contenuto, risultano riproposti in questo mio ultimo lavoro insieme ad altri inediti.
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