La vita di Sergio, fino al primo impatto con S. Salvatore Telesino – luogo destinato a rimanere, poi, emblematico nel suo cammino di formazione – era stata lineare, semplice e senza scosse, non aveva mai avuto modo di sperimentare ostacoli e difficoltà. Gli
era sembrato di vivere in un sogno perenne in cui tutto filava liscio: la famiglia gli era stata intorno, gli amici avevano popolato il suo mondo, le stelle lo avevano guardato dall’alto e avevano guidato il suo cammino. La sua strada, via Roma, era stata il grande giardino dei suoi giorni, vi aveva trascorso tranquillo le sue ore e aveva pensato che fosse lì tutto il creato, come se null’altro potesse esistere intorno e neppure potesse essere immaginato. In quel mondo, in effetti, egli aveva trovato tutto, o tutto quello che aveva supposto potesse essere il tutto, un tutto fatto di armonica tranquillità, non gli era mancato niente: aveva avuto sempre vicino il respiro rassicurante della piazza e della chiesa, aveva avuto a pochi passi la casa della nonna, aveva avuto di fronte il negozio dove aveva comprato giochini,
dolcetti e sogni. A interrompere l’incanto di una vita che era sembrata un vero e proprio paradiso in terra era stato, poi, l’incontro-scontro con il paese di nascita della madre, il luogo della sua prima vacanza estiva e di altre vacanze successive, il luogo del suo primo distacco dalla famiglia, il luogo dell’incontro con un mondo diverso, un luogo non suo o che non aveva sentito tale, un luogo capace di produrgli sensazioni di profondissima solitudine e conseguenti stati di angoscia, il luogo dell’iniziazione alla vita, un luogo che, poi, avrebbe dovuto, in parte, esorcizzare dalla sua mente e dal suo spirito o tradurne i significati onde superare le insicurezze che vi aveva acquisito e i dubbi che gli erano sorti relativamente alla sua identità, al suo modo di essere e di pensare la vita e i rapporti umani, un luogo che sente, oggi, malgrado tutto, di potere ringraziare per avergli posto di fronte i simboli stessi dell’esistenza e di averlo indotto a pensare per vincere il rischio incombente di ripiegamento e di cedimento ai poteri esterni che tentavano di ostacolare il cammino, appena iniziato, verso l’incontro con se stesso. Anche Giulio si era incontrato subito con il dolore e con il disagio di vivere, tanto da indurlo, da un certo momento in poi, a porsi dei drammatici interrogativi relativi a chi fosse lui veramente, se avesse ancora un senso la sua vita, se fosse ancora possibile recuperarla. Aveva perso la madre che era ancora fanciullo, era stato cresciuto da un padre immerso, per non dire perso, nel lavoro, disattento alle problematiche psico-evolutive dei due figlioletti, aveva dovuto rinunciare al suo paesello, che gli aveva creato intorno una sensazione di caloroso affetto, sostituendo, in parte, il perduto affetto materno, aveva, infine, trascorso il suo tempo a Milano, in un luogo fisico e mentale lontano da se stesso, opposto alle sue aspirazioni, governato con cinica determinazione dalla moglie e dai figli, aveva toccato con mano la sua stessa impotenza rispetto a quanto gli girava intorno. Giulio e Sergio, due persone diverse, due vite diverse, due luoghi diversi e distanti, due vie parallele, che trovano la loro casuale confluenza a S. Anna d’Alfaedo, il luogo magico del loro battesimo alla vita, un luogo in cui, prima per l’uno e poi per l’altro, ha inizio un cammino di conoscenza, ha inizio la lotta contro quel grande nemico che è l’ignoranza di sé. Come Milano era stata per Giulio, S. Salvatore aveva creato in Sergio una sensazione di vuoto, di lontananza dal suo luogo: entrambi avevano sperimentato il disagio dell’esilio da se stessi, della vita vissuta nella terra di nessuno; entrambi avevano sfiorato il confine dell’inesistenza; entrambi avevano trovato ispirazione nell’assoluta misticità di un luogo fisico per accedere a un luogo psichico: una grotta come specchio della propria anima; entrambi avevano potuto interrogare il proprio vuoto interiore al cospetto delle viscere stesse della terra, osservata nelle sue profondità e nella sua assoluta nudità e ci si erano visti in sintonia; entrambi lungo gli accidentati bordi di una bocca famelica avevano incominciato a intravedere
quello stretto sentiero che conduce verso l’inesplorato io, verso le parti primitive di se stessi, verso la conoscenza di quanto si potrebbe essere veramente se si riuscisse a compiere il cammino verso il proprio centro, tempio della propria essenza, altare dei riti dell’inizializzazione alla propria identità, unica e irripetibile. A volte, la nostra misconosciuta anima mi appare nel modo stesso del monolito che apre e, poi, chiude il film “2001 Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick, mi appare allo stato di energia primitiva dell’universo, di vita allo stato puro, scevra da contaminazioni, mi appare come anima di noi stessi e dell’universo intero: l’astronauta Bowmann, giunto allo stato massimo della sua vecchiaia, vede davanti a sé il monolito nero e rinasce in forma di feto cosmico. Ognuno di noi ha un feto cosmico entro se stesso ed è ciò che rende significativa, duratura, perpetuabile nel tempo la propria irripetibile essenza, ognuno di noi può rinascere a se stesso ma deve essere pronto a compiere il sacrificio di un lungo e complicato cammino.
dolcetti e sogni. A interrompere l’incanto di una vita che era sembrata un vero e proprio paradiso in terra era stato, poi, l’incontro-scontro con il paese di nascita della madre, il luogo della sua prima vacanza estiva e di altre vacanze successive, il luogo del suo primo distacco dalla famiglia, il luogo dell’incontro con un mondo diverso, un luogo non suo o che non aveva sentito tale, un luogo capace di produrgli sensazioni di profondissima solitudine e conseguenti stati di angoscia, il luogo dell’iniziazione alla vita, un luogo che, poi, avrebbe dovuto, in parte, esorcizzare dalla sua mente e dal suo spirito o tradurne i significati onde superare le insicurezze che vi aveva acquisito e i dubbi che gli erano sorti relativamente alla sua identità, al suo modo di essere e di pensare la vita e i rapporti umani, un luogo che sente, oggi, malgrado tutto, di potere ringraziare per avergli posto di fronte i simboli stessi dell’esistenza e di averlo indotto a pensare per vincere il rischio incombente di ripiegamento e di cedimento ai poteri esterni che tentavano di ostacolare il cammino, appena iniziato, verso l’incontro con se stesso. Anche Giulio si era incontrato subito con il dolore e con il disagio di vivere, tanto da indurlo, da un certo momento in poi, a porsi dei drammatici interrogativi relativi a chi fosse lui veramente, se avesse ancora un senso la sua vita, se fosse ancora possibile recuperarla. Aveva perso la madre che era ancora fanciullo, era stato cresciuto da un padre immerso, per non dire perso, nel lavoro, disattento alle problematiche psico-evolutive dei due figlioletti, aveva dovuto rinunciare al suo paesello, che gli aveva creato intorno una sensazione di caloroso affetto, sostituendo, in parte, il perduto affetto materno, aveva, infine, trascorso il suo tempo a Milano, in un luogo fisico e mentale lontano da se stesso, opposto alle sue aspirazioni, governato con cinica determinazione dalla moglie e dai figli, aveva toccato con mano la sua stessa impotenza rispetto a quanto gli girava intorno. Giulio e Sergio, due persone diverse, due vite diverse, due luoghi diversi e distanti, due vie parallele, che trovano la loro casuale confluenza a S. Anna d’Alfaedo, il luogo magico del loro battesimo alla vita, un luogo in cui, prima per l’uno e poi per l’altro, ha inizio un cammino di conoscenza, ha inizio la lotta contro quel grande nemico che è l’ignoranza di sé. Come Milano era stata per Giulio, S. Salvatore aveva creato in Sergio una sensazione di vuoto, di lontananza dal suo luogo: entrambi avevano sperimentato il disagio dell’esilio da se stessi, della vita vissuta nella terra di nessuno; entrambi avevano sfiorato il confine dell’inesistenza; entrambi avevano trovato ispirazione nell’assoluta misticità di un luogo fisico per accedere a un luogo psichico: una grotta come specchio della propria anima; entrambi avevano potuto interrogare il proprio vuoto interiore al cospetto delle viscere stesse della terra, osservata nelle sue profondità e nella sua assoluta nudità e ci si erano visti in sintonia; entrambi lungo gli accidentati bordi di una bocca famelica avevano incominciato a intravedere
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