E’ un mio “modo” quello di “parlarmi”: io “vi parlo” parlandomi. E… pensandomi, parlandomi e parlandovi sono giunto alla mia terza raccolta di poesie: quest’ultima è volutamente molto meno densa di componimenti, ma l’ho avvertita in questa maniera, penso che essa esaurisca da sola un mio momento, che vada trasmessa al lettore nel suo insieme evocativo, insomma allo stato grezzo, nella sua stessa radice di istinto e di immediatezza. Fare versi mi piace più che qualsiasi altra cosa, perché l’atto stesso del versificare, che richiede un certo modo di pensare, mi rende immediatamente libero, mi dà l'inebriante sensazione di potere “scappare” dalla scomoda schiavitù delle inibizioni. Già in occasione della presentazione della mia prima raccolta “L’Ultimo Rito”, nel 1995, e poi della seconda “Frammenti”,
nel 2003, ebbi modo di dire che non prediligo chiudere i miei versi in schemi metrici e ritmici che non siano quelli scaturiti spontaneamente dagli stati evocativi. La mia natura “laico-sacerdotale” pare emergere nettamente fra le pagine che scaturiscono dalla scrittura. La vocazione alla solitudine, quindi, è il tema emergente da questi versi: essa genera il silenzio e produce insieme al pensiero la parola, il segno rivelatore, colei che sola è in grado di tradire l’anima e metterne fuori le verità più recondite, essa solamente ha il potere di tradurre le maschere che si creano fra ognuno di noi e la quotidianità del vivere.
Le metafore, in questo mio terzo percorso poetico, sembrano meglio svelate, sono meno confuse fra altri elementi, si staccano con più evidenza, sono comprese nelle parole con le quali si identificano: la solitudine ed il silenzio, le radici, insomma, dell’anima di ogni essere umano che, un giorno, per sua avventura o sventura, sia comparso sulla faccia della terra. La solitudine e il silenzio, insieme all’amore sconfinato per la parola, costituiscono la mia più intima natura, sono gli elementi da me meglio accettati di un’esistenza “sconcertante”, sono il mio unico elemento-guida, sono la mia prima ed unica scelta, sono la negazione della “folla”, dell’estraneazione, del rumore, della confusione, del mercato del vivere quotidiano, del nulla che si genera intorno e distrugge a poco a poco la nostra interiorità, l’identità che ci appartiene e che rappresenta il “segno unico” dell’essere, insomma la garanzia della assoluta irripetibilità dell’individuo (= indivisibile), che, in quanto tale, non può essere plagiato da alcun potere e tantomeno dal potere della politica, della cultura o della religione: quest’ultima, in particolare, non dovrebbe essere mai mescolata a concetti di cultura o di civiltà. Ritengo che ognuno di noi debba essere il tempio di se stesso, perché è in se stessi che si rintracciano tutte le altre radici delle certezze e fra queste quella imprescindibile della fede, il cui albergo è nel cuore di ogni uomo.
nel 2003, ebbi modo di dire che non prediligo chiudere i miei versi in schemi metrici e ritmici che non siano quelli scaturiti spontaneamente dagli stati evocativi. La mia natura “laico-sacerdotale” pare emergere nettamente fra le pagine che scaturiscono dalla scrittura. La vocazione alla solitudine, quindi, è il tema emergente da questi versi: essa genera il silenzio e produce insieme al pensiero la parola, il segno rivelatore, colei che sola è in grado di tradire l’anima e metterne fuori le verità più recondite, essa solamente ha il potere di tradurre le maschere che si creano fra ognuno di noi e la quotidianità del vivere.
Le metafore, in questo mio terzo percorso poetico, sembrano meglio svelate, sono meno confuse fra altri elementi, si staccano con più evidenza, sono comprese nelle parole con le quali si identificano: la solitudine ed il silenzio, le radici, insomma, dell’anima di ogni essere umano che, un giorno, per sua avventura o sventura, sia comparso sulla faccia della terra. La solitudine e il silenzio, insieme all’amore sconfinato per la parola, costituiscono la mia più intima natura, sono gli elementi da me meglio accettati di un’esistenza “sconcertante”, sono il mio unico elemento-guida, sono la mia prima ed unica scelta, sono la negazione della “folla”, dell’estraneazione, del rumore, della confusione, del mercato del vivere quotidiano, del nulla che si genera intorno e distrugge a poco a poco la nostra interiorità, l’identità che ci appartiene e che rappresenta il “segno unico” dell’essere, insomma la garanzia della assoluta irripetibilità dell’individuo (= indivisibile), che, in quanto tale, non può essere plagiato da alcun potere e tantomeno dal potere della politica, della cultura o della religione: quest’ultima, in particolare, non dovrebbe essere mai mescolata a concetti di cultura o di civiltà. Ritengo che ognuno di noi debba essere il tempio di se stesso, perché è in se stessi che si rintracciano tutte le altre radici delle certezze e fra queste quella imprescindibile della fede, il cui albergo è nel cuore di ogni uomo.