Da che l’uomo esiste, si è sempre
posto il problema della conoscenza della natura, sua madre o matrigna,
affidando alla stessa un ruolo, una funzione, che si è, di volta in volta, andata
modificando nel tempo, secondo le diverse epoche, i diversi luoghi, le diverse
culture, le diverse religioni, i diversi popoli. La domanda che rimane tuttora
sospesa è: «Quale potrebbe essere il criterio migliore di confronto dell’uomo con
la natura per addivenire alla visione dell’essere e dell’essenza insite nel
creato?». Il grande tema, lungi dall’essersi stemperato nel tempo e lungi dall’essere
stato risolto, nelle continue dispute fra studiosi di ogni disciplina, soprattutto
quelle orientate agli studi fisici e spirituali, è quanto mai presente oggi, in
un’epoca fortemente caratterizzata dal crescere prepotente della tecnologia
informatica e dallo spirito scientistico, che, mentre prende il dominio sulla
natura e la modifica oltre limiti inimmaginabili prima, sembra offrire all’uomo
prospettive del tutto nuove, capaci di inoltrarsi oltre il senso comune delle
cose, fino a ipotizzare la improvvisa realizzazione del desiderio di sempre di
potere oltrepassare i confini del conoscibile, classicamente inteso, di potere sfondare
le barriere più lontane dell’universo, di ritradurre in altro i concetti di
spazio e di tempo, specie dopo la scoperta della teoria della relatività di
quel grande genio della fisica che è stato A. Einstein.. E, mentre l’uomo
dibatte ancora intorno al grande tema, dei suoi stessi limiti e dei limiti della
materia, la scuola continua nel suo ancestrale ritardo nell’affrontare nei
dovuti modi, nei dovuti spazi e nei dovuti tempi, la sempre più complessa
problematica, per potere offrire un ausilio meno fatiscente, più decisivo alle
menti, agli spiriti e agli orientamenti delle nuove generazioni, attraverso
l’osservazione sistematica, l’analisi, il confronto e la verifica, che sono le
basi fondanti per raggiungere conoscenze meno labili, meno ipotetiche, meglio
caratterizzate da certezze. A ben vedere, oggi, l’epistemologia appare
sempre più orientata a dare credibilità alle teorie della relatività, applicate,
ormai, a ogni direzione della ricerca della conoscenza, e si veda, in proposito
gli studi sulla psiche a partire da Freud.
Ma proviamo un po’ a percorrere, sia pure per grandi salti – essendo questo un saggio breve – il lungo cammino di conoscenza compiuto dall’umanità dai primordi del pensiero filosofico fino a Kant relativamente allo smisurato tema, al fine di arrivare a comprendere meglio gli sviluppi della conoscenza in un mondo, come quello contemporaneo, che appare, a tratti, provare smarrimento di fronte a una natura sempre più violata e per questo diventata sempre più minacciosa e ribelle.
A partire dai presocratici, la natura è stata sempre lo spunto di partenza per addivenire alla visione dei concetti e all’espansione delle loro relazioni ai fini della conoscenza della natura stessa, prima ispiratrice dell’uomo e di tutto quanto presiede alla natura e all’uomo stesso. Ma i primi fondamenti di un pensiero logico-scientifico, in proposito, cominciano a essere posti a partire dai primi vagiti dell’età moderna, mentre comincia a scomparire verso l’orizzonte il cosiddetto periodo oscurantistico rappresentato dal medioevo e dal pensiero neo platonico. Alle origini della filosofia, a dominare sul pensiero e a fare da indirizzo verso tutte le forme e le direzioni della conoscenza è il mito, nel mito sono sintetizzate, in una assoluta armonia, Natura e divinità: le culture primitive, quelle agro-pastorali e quelle dei misteri orfico-dionisiaci trovano sede nella comune concezione della divinità la cui residenza è il monte Olimpo, da cui la definizione, giunta fino a noi, di religiosità olimpica. In tale concezione natura e divinità risultano indistinte, tanto queste ultime prendono forma e aspetto dall’uomo, e alla vita dell’uomo partecipano quasi condividendone gioie e dolori, passioni e sentimenti, come d’altra parte traspare dalle pagine di storia che ci sono giunte relative alle civiltà degli Assiro-Babilonesi, degli Egizi e dei Greci.
Ed è propria in Grecia – dove il pensiero filosofico propriamente detto, trova la sua prima articolata esplosione – che la sintesi dialettica natura e pensiero, natura e religione, natura e organizzazione urbanistica e sociale, trova la sua più completa espressione. Nei presocratici della celebre scuola di Mileto, nella Ionia, intorno al sec. VI a.C., Talete, Anassimandro e Anassimene discutono intorno ai perché dell’acqua, dell’apeiron e dell’aria, pervenendo, dopo profonde osservazioni e meditazioni, alle rispettive concezioni dell’ilozoismo panteistico, vale a dire acqua-umidità intesi come principio vivente (Talete); della Terra come forma cilindrica fondata sulla proporzione elementare dei diversi e sulla legge naturale dell’equilibrio (Anassimandro); della Terra come tavola rotonda sostenuta dall’aria, per una legge naturale dell’origine del tutto dai principi di condensazione e di rarefazione (Anassimene). Successivamente, Empedocle, un membro della Scuola Eleatica, intorno al V secolo a.C., identifica nella terra, nell’acqua, nell’aria e nel fuoco, il principio di amore-odio, di aggregazione e di disgregazione, base, secondo la sua concezione, del divenire di tutte le cose. Anassagora, nel contempo, parla di un intelletto, un principio quasi divino, regolante la forza naturale attraverso le omeomerie, elementi infiniti e immutabili, presenti in ogni cosa, intelletto, insito nelle cose.
Qualche tempo dopo, Socrate ribalta il problema della natura dalla natura cosmica a quella umana e apre il problema filosofico della natura in quanto umana essa stessa, problema che sarà ripreso e sviluppato in Platone prima e in Aristotele dopo. La disposizione interiore, dunque, è l’essenza della natura umana (daimon) verso il bene (eudaimonia). Il compito del filosofo è sapere cosa è il bene. “So di non sapere”, La proposizione di partenza del “So di non sapere”, che il grande filosofo chiamerà “ironia maieutica”, traduce il “Conosci te stesso” iscritto sulle antiche acropoli. Il bene se universale e necessario, corrisponde così alla suprema legge della città. Il che comporta che il bene o è comune o non è il bene, ma, attraverso la conoscenza di se stessi (dimensione individuale), si può accedere alla conoscenza del bene (dimensione universale).
Platone, per parte sua, introduce in una sua celebre opera, il Timeo, un concetto di natura con proiezioni finalistiche, nel senso che essa non è governata da leggi meccanicamente cieche, ma contiene un principio che la orienta, potremmo dire che le fa da guida verso il Mondo delle idee pure, e tale principio trova la sua identificazione in un Demiurgo o Anima del mondo. Ma nella natura vi è pure un principio oscuro e amorfo, causa di imperfezione, di disordine e di male, principio identificabile nella materia. Quest’ultima fa da forza di resistenza all’azione del Demiurgo fino a produrre una copia o una imitazione delle idee pure, creando così una molteplicità di cose rispetto all’unico modello ideale ed eterno. Secondo tale sua dualistica concezione, egli finisce per identificare la materia nel Non-essere, nell’indeterminato, nel caos, nella selva oscura (di dantesca memoria).
Si giunge così ad Aristotele, il quale si contrappone con assoluta decisione al meccanicismo atomistico democriteo (come, per parte sua, aveva già fatto il suo maestro Platone). Egli afferma che l'evoluzione di un essere vivente non può essere il risultato di semplici combinazioni occasionali di atomi: leggi proprie, invece, operano dall'interno, e ne connotano la "sostanza", in maniera diversa dai meccanismi semplici di causa-effetto che agiscono dall'esterno, la cui funzione è legata all’accidentalità". Per Aristotele ogni organismo si presenta in forma unitaria, come entelechia, cioè come entità capace di contenere il criterio che le consente l’evoluzione. Quattro sono le cause responsabili dei mutamenti della natura: la causa formale, che consiste nelle qualità specifiche dell'oggetto stesso, nella sua essenza; la causa materiale secondo la quale la materia è il sostrato senza cui l'oggetto non esisterebbe; la causa efficiente, che è l'agente che determina operativamente il mutamento; la causa finale, considerata fondamentale, poiché in essa risiede un'intenzionalità insita nella natura, il motivo basilare per cui una certa realtà esiste. All'origine, anche della cosmologia aristotelica, è posto il tentativo di pervenire a spiegazioni qualitative della natura, capaci di tenere conto dell'essenza, oltre che del dato quantitativo. Tale tentativo recupera in parte Empedocle e la su teoria dei quattro elementi: terra, aria, fuoco e acqua. Secondo Aristotele, dunque, le varie composizioni degli elementi costituiscono tutto ciò che si trova nel mondo. Ogni elemento possiede due delle quattro qualità (o «attributi») della materia: il secco (terra e fuoco); l'umido (aria ed acqua); il freddo (acqua e terra); il caldo (fuoco e aria). Egli, in polemica con i filosofi atomisti, quali Democrito, si contrappone senza rimedio alla concezione dell'esistenza del vuoto onde consentire ai quattro elementi di potersi muovere, tendendo ciascuno verso il suo "luogo naturale", in accordo con la sua concezione finalistica dell’esistenza.
La concezione della natura e la particolare visione cosmologica aristoteliche condizioneranno parecchio l’intero sistema del pensiero fino alle soglie dell’età moderna, trovando suoi fautori fra i neo-aristotelici e fra questi Telesio, Bruno e Campanella. Costoro, infatti, affermano che la natura è la stessa cosa che Dio, o quasi. In essi – se si tiene conto di alcune sfumature di diversità – la natura è tutta la realtà possibile, essa è la norma di tutto, tutto da essa parte e tutto ad essa ritorna, essa è la regolatrice di ogni processo. Vediamone ora il pensiero in fasi successive.
Telesio considera la natura come un mondo a sé, un mondo autonomo, un mondo che si regge solo sui suoi stessi principi e solo in base a tali principi può essere spiegato, ogni forza metafisica, in tale compito di svelamento, è completamente estranea a quei principi. L’uomo, dunque, in quanto essere sensibile, è esso stesso natura e per conoscere quest’ultima può affidarsi solo ai suoi stessi sensi.
In Giordano Bruno l'uomo viene restituito a se stesso e reso padrone della propria sorte. Divenuto egli centro consapevole del proprio mondo, riconosce la grandezza e il significato della natura , dell’universo fisico che lo circonda, ne comprende l’immensità, le forze inesauribili, le forme infinite, l’estensione senza barriere. Frantuma l’immagine di un mondo simile a una grande casa, chiusa da sfere cristalline e immutabili. Liberato da una falsa concezione del divino, proprio nel punto in cui conquista l’autonomia del morale, l’uomo ha il coraggio di liberarsi da una visione primitiva del mondo. Egli sa di non essere il centro fisico dell’universo, ma è consapevole della potenza della propria ragione e delle proprie risorse. Recuperando, fra l’altro, la centralità dell’uomo rispetto al mondo morale, nega la visione antropomorfica nello stesso momento che nega la visione geocentrica dell’universo esistente. Scaturisce dall’insieme una concezione del mondo fisico e di quello morale che rappresenta una inversione di tendenza rispetto alle precedenti concezioni e pone le fondamenta delle caratteristiche del mondo moderno e, in un certo senso, di quello contemporaneo. Egli, in effetti, libera l’uomo in due modi diversi ma contigui, lo libera prima dalla superstizione e, di conseguenza, dalla mortale schiavitù delle mille forme della dipendenza e della servitù: servitù culturale, servitù politica, servitù religiosa e altre formule correlate della servitù stessa. Libera l’uomo dalla natura stessa, liberandolo dalla falsa concezione che la stessa non possa essere dominata e modificata, recuperando, nel contempo, il concetto di scienza, intesa come strumento al servizio dell’uomo per potersi aprire le vie verso una diversa visione della conoscenza, capace di rivelare alla mente dell’uomo l’idea della possibilità dell’esistenza di mondi infiniti, di spazi sconfinati dentro al sistema universale.
Tommaso Campanella, per parte sua, segue la scia del pensiero del naturalismo di Telese, ipotizzando, tuttavia, ulteriori piste di riflessione e di sviluppo. Egli sostiene, in accordo con Telese, che la natura vada indagata e conosciuta nei suoi principi fondativi. Poi egli ne indica, in particolare, tre: il caldo, il freddo e la materia. Poiché ogni essere è di per sé formato da questi tre elementi, se ne deduce che gli esseri della natura sono tutti forniti di sensibilità, essendo la struttura della natura comune a tutti gli enti. Già Telesio riteneva che anche i sassi possono conoscere, ma Campanella si spinge molto oltre, ipotizzando come cosa certa che anche i sassi conoscono, perché nei sassi sono riscontrabili i tre principi, vale adire il caldo, il freddo e la massa corporea, cioè la materia di cui essi stessi sono costituiti. Il sistema della conoscenza in Campanella, dunque, risulta fondato su criteri gnoseologici di tipo sensistico. La razionalità stessa è conseguenza della sensazione, il che significa che una conoscenza razionale intellettiva non può che scaturire da quella sensitiva. Egli, pertanto, in contrapposizione a Telesio, al fine di riconoscere all’uomo il valore che gli compete nella natura, introduce, tramite il suo pensiero, l'esistenza di due modi del conoscere: il primo è innato, e si manifesta attraverso l’autocoscienza interiore; il secondo, invece, si manifesta attraverso il vedere esteriore, che si avvale della capacità conoscitiva dei sensi. Il primo dei due modi viene definito ‘sensus additus’, che è la conoscenza di sé; il secondo ‘sensus abitus’, che è la conoscenza del mondo esterno. La conoscenza del mondo esterno appartiene a tutti, anche agli animali; la conoscenza di sé, invece, appartiene solo all’uomo, ed è la capacità suppletiva o aggiuntiva che l’uomo ha di avere la coscienza di essere un “essere pensante”.
Galileo Galilei rappresenta un punto di rottura e di avanzamento rispetto ad Aristotele e alla sua visione cosmologica di tutto quanto è. Egli si proietta, quindi, oltre i neo aristotelici, dando vita a una tenacissima battaglia contro il principio di autorità, rivendicando alle sensate esperienze il valore di verità incontestabili, in quanto dimostrabili e verificabili. Proprio sulla scorta delle certe dimostrazioni egli evidenzia, affermandola e confermandola, la teoria copernicana dell’eliocentrismo rispetto alla immaginazione geocentrica tolemaica, e il tutto avviene in aperto scontro con la visione biblico-teologica dell’universo. Ma Galilei rivendica con fermezza, sostenuta dai fatti e dalle dimostrazioni, l’autonomia dalla Chiesa e dalle Scritture della ricerca scientifica. Egli afferma, in proposito, che la Bibbia non è certamente un testo scientifico, esso è ispirato da Dio per ben altri motivi. Il suo compito, dunque, è quello di ispirare agli uomini quelle verità non raggiungibili né dai sensi né dalle verifiche e dalle dimostrazioni matematiche. Proprio per le diverse finalità che esse hanno, la scienza e la Bibbia devono essere libere nelle rispettive ricerche all’interno dei loro diversi campi ed esperienze. Ciò implica che la scienza debba avere il diritto garantito di potere avere un proprio metodo, fondato sul ricorso all’esperienza, non intesa quest’ultima come un “ovvio naturale vedere le cose”. Tale metodo, lontano dagli antichi modi del semplice ricorso ad atti di pura intuizione, si serve di un ricorso ai calcoli e alle misure, alle verifiche e agli esperimenti tipici delle scienze matematiche e di quelle ad essa direttamente connesse, scienze capaci di garantire la certezza del risultato. La matematica, in effetti, è già contenuta nella natura stessa, che appare scritta, a sua volta, in caratteri tali da riprodurre triangoli, cerchi e altre figure geometriche. Il linguaggio matematico, dunque, è diretta rivelazione della natura che ne fa dono all’umanità. Nel pensiero filosofico galileiano è negata all’uomo la possibilità di conoscere le essenze o le forme sostanziali delle cose, che solo Dio può, invece, conoscere. Le qualità sensibili non sono nell’oggetto ma nel soggetto, quindi esse possono essere percepite e definite soggettivamente. Alla scienza della natura, se ne deduce, spetta il compito di studiare le qualità oggettive dei corpi, che sono misurabili, quindi scientificamente traducibili nelle forme della verità.
Anche Cartesio considera la matematica quale nuovo strumento scientifico per l’indagine e per la conoscenza della natura, egli vede in essa la Scientia scientiarium , l’unica in grado di porre l’ordine e la misura in tutte le cose: nella medicina, nell’astrologia in altre discipline collaterali, per questo egli la definisce “matematica universale” per distinguerla da quella comunemente intesa. Nel Discorso sul metodo, poi, egli stabilisce le regole per ottenere i risultati davvero positivi nella conoscenza: la regola dell’evidenza, la regola dell’analisi, la regola della sintesi, la regola dell’induzione o dell’enumerazione. A rafforzamento delle regole e della sua tesi del dubbio metodico, introduce il principio del dubbio iperbolico, secondo il quale si rende necessario un certo atteggiamento di prudenza, di fronte al principio dell’evidenza, anche rispetto alla matematica, al fine di potere dimostrare anche tramite il pensiero, il Cogito ergo sum, l’esistenza della res cogitans che di per sé non è dimostrativa dell’esistenza della res extensa, ne nasce dunque un dualismo nella distinzione tra l’anima e il corpo, dal quale, poi, scaturisce l’indipendenza dell’anima dal corpo e la sua stessa eternità rispetto a quest’ultimo. Nella concezione della natura cartesiana, la stessa è caratterizzata dall’estensione: la materia, dunque, viene concepita come ciò che ha estensione nello spazio. Le qualità fisiche dei corpi materiali, come in Galilei, sono considerate quali nozioni soggettive che lo spazio determina in noi, perciò non possono essere oggetto della conoscenza scientifica, non sono misurabili e verificabili matematicamente. Scientificamente si possono conoscere solo la forma, la dimensione, le grandezze e il movimento. Il mondo ha una estensione infinita, è costituito ovunque della stessa materia, che è infinitamente divisibile, non è concepibile, pertanto, il vuoto, tutto è occupato dalla materia. Anche Cartesio, come Galilei, accetta la visione cosmologica di Copernico, condividendone in pieno la concezione eliocentrica.
Elementi di novità si riscontrano in Spinoza, che, dopo Cartesio, espone la propria concezione dell’ordine della natura, sottolineando le differenze, a tratti notevoli, rispetto alle concezioni dei suoi grandi predecessori. Secondo la sua concezione, le affezioni e gli affetti, i vizi e le virtú, fanno parte della natura e possono essere studiati con un ordine geometrico, come tutto il resto della realtà. Essi, dunque, non avrebbero, come appariva essere in Galilei e in Cartesio, una determinazione soggettiva ma oggettiva allo stesso modo della res extensa, possono essere, dunque, misurati e verificati alla stessa maniera delle forme, delle grandezze e dei movimenti. Nella natura, egli dice, nulla accade che possa essere attribuito a un suo vizio; infatti la natura è sempre la stessa e la sua potenza di agire è ovunque una sola e medesima, ossia le leggi e le norme della natura –secondo le quali ogni cosa accade e la stessa cosa da una forma si muta in un’altra – sono ovunque e sempre le medesime, e perciò anche il modo d’intendere la natura di tutte le cose, quali che siano, deve essere uno e medesimo, ossia in base alle leggi e alle norme universali della Natura stessa. Quindi gli affetti dell’odio, dell’ira, dell’invidia, ecc., in sé considerati, derivano dalla stessa necessità e virtú della natura, come le altre singole cose; e perciò ammettono determinate cause per mezzo delle quali vengono conosciuti e hanno determinate proprietà degne della nostra conoscenza come le proprietà di qualunque. Spinoza, dunque, disserta della natura e delle forze degli affetti e del potere della mente su di essi, con lo stesso metodo con cui tratta di Dio e della mente, e considera le azioni e i desideri umani come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi, di forme e di movimenti.
Il percorso si conclude con Kant che compie l’estremo tentativo si sintetizzare nell’Io puro, tramite l’intelletto, il dualismo cartesiano della Res cogitans e della es extensa. Stando al suo pensiero il tormento della ragione umana è posto dalla natura stessa: essa, in effetti, evidenzia dei limiti. La ragione, egli afferma, non può penetrare i confini della metafisica, poiché, quando la ragione supera se stessa, cade in sofismi e false ipotesi, come quando pone le idee di Dio e di anima. La matematica e la fisica, dunque, intervengono a porsi come conoscenze propedeutiche alla ragione medesima, che ha bisogno di piegare la natura alle sue domande invece di subirle. Per riuscire in tale compito essa deve prospettare alla natura principii suoi, e, in questo risiede quella che, poi, viene definita “la rivoluzione copernicana del pensiero. Secondo la nuova concezione del rapporto uomo-natura, la natura risulta essere un insieme di fenomeni i cui principi scaturiscono dalla forma data loro dalla ragione, quindi non le sono insiti o contenuti da sempre, come, invece, in Galilei. Per Kant le leggi sono nell’io e, in quanto tale, non risulta possibile la conoscenza del noumeno, della cosa in sé, che è, invece, competenza della metafisica. La cosa in sé è possibile come pensiero e non come conoscenza, quest’ultima è legata all’intuizione sensibile, una forma della conoscenza compatibile con la capacità di sintesi dei dati delle scienze. Anche lo spazio e il tempo sono forme a priori, si trovano nel nostro spirito e hanno un valore universale: lo spazio inquadra i dati sensibili del mondo esterno; il tempo, invece, inquadra i fenomeni interiori. La natura, pertanto, risulta costituita di fenomeni che noi colleghiamo con i nessi di causa ed effetto, vale a dire due fra le categorie dell’intelletto; al di sotto dei fenomeni c’è la cosa in sé: la conoscenza così risulta essere il frutto di una sintesi a priori.
Mai quanto oggi il conflitto fra uomo e natura è stato tanto grande, a volte drammatico, l’uomo con i suoi potenti mezzi tenta in ogni modo di deviare il destino della sua stessa generatrice, cerca di soggiogarla e di porla al suo servizio, nel ruolo di ancella, umiliandola nel contempo, sia nel corpo, che appare sempre più sofferente, che nello spirito. Il rischio che si corre è deflagrante molto più di una semplice esplosione atomica, l’ipotesi è quella di un possibile e irreversibile disastro universale, i cui segni già appaiono un po’ di qua e un po’ di là. La necessità della ripresa del dialogo uomo-natura si fa sempre più urgente, i segnali che arrivano sono questi. Si pensa alla urgenza di una più mirata attenzione filosofica e alla costruzione di una rinnovata visione antropologica del rapporto. «La speranza, mai sopita, è che l’uomo, dopo le disattenzioni e gli scempi compiuti negli ultimi decenni, si riavvicini alla natura madre e amica, riconoscendo nella stessa il luogo e il mezzo della sua origine, prendendo, nel contempo, coscienza di alcuni suoi limiti, cercando di ampliare la conoscenza, al fine di potere riorientare il suo agire verso una maggiore consapevolezza di essere egli-uomo parte di un progetto universale che travalica i confini sia del tempo che dello spazio» (dalla tesi per la maturità classica di Fabiola Sanfelice, Natura madre e maestra, Istituto di Istruzione Superiore Telesi@ - Liceo classico – Telese Terme (BN) – Anno scolastico 2012 / 13).
Ma proviamo un po’ a percorrere, sia pure per grandi salti – essendo questo un saggio breve – il lungo cammino di conoscenza compiuto dall’umanità dai primordi del pensiero filosofico fino a Kant relativamente allo smisurato tema, al fine di arrivare a comprendere meglio gli sviluppi della conoscenza in un mondo, come quello contemporaneo, che appare, a tratti, provare smarrimento di fronte a una natura sempre più violata e per questo diventata sempre più minacciosa e ribelle.
A partire dai presocratici, la natura è stata sempre lo spunto di partenza per addivenire alla visione dei concetti e all’espansione delle loro relazioni ai fini della conoscenza della natura stessa, prima ispiratrice dell’uomo e di tutto quanto presiede alla natura e all’uomo stesso. Ma i primi fondamenti di un pensiero logico-scientifico, in proposito, cominciano a essere posti a partire dai primi vagiti dell’età moderna, mentre comincia a scomparire verso l’orizzonte il cosiddetto periodo oscurantistico rappresentato dal medioevo e dal pensiero neo platonico. Alle origini della filosofia, a dominare sul pensiero e a fare da indirizzo verso tutte le forme e le direzioni della conoscenza è il mito, nel mito sono sintetizzate, in una assoluta armonia, Natura e divinità: le culture primitive, quelle agro-pastorali e quelle dei misteri orfico-dionisiaci trovano sede nella comune concezione della divinità la cui residenza è il monte Olimpo, da cui la definizione, giunta fino a noi, di religiosità olimpica. In tale concezione natura e divinità risultano indistinte, tanto queste ultime prendono forma e aspetto dall’uomo, e alla vita dell’uomo partecipano quasi condividendone gioie e dolori, passioni e sentimenti, come d’altra parte traspare dalle pagine di storia che ci sono giunte relative alle civiltà degli Assiro-Babilonesi, degli Egizi e dei Greci.
Ed è propria in Grecia – dove il pensiero filosofico propriamente detto, trova la sua prima articolata esplosione – che la sintesi dialettica natura e pensiero, natura e religione, natura e organizzazione urbanistica e sociale, trova la sua più completa espressione. Nei presocratici della celebre scuola di Mileto, nella Ionia, intorno al sec. VI a.C., Talete, Anassimandro e Anassimene discutono intorno ai perché dell’acqua, dell’apeiron e dell’aria, pervenendo, dopo profonde osservazioni e meditazioni, alle rispettive concezioni dell’ilozoismo panteistico, vale a dire acqua-umidità intesi come principio vivente (Talete); della Terra come forma cilindrica fondata sulla proporzione elementare dei diversi e sulla legge naturale dell’equilibrio (Anassimandro); della Terra come tavola rotonda sostenuta dall’aria, per una legge naturale dell’origine del tutto dai principi di condensazione e di rarefazione (Anassimene). Successivamente, Empedocle, un membro della Scuola Eleatica, intorno al V secolo a.C., identifica nella terra, nell’acqua, nell’aria e nel fuoco, il principio di amore-odio, di aggregazione e di disgregazione, base, secondo la sua concezione, del divenire di tutte le cose. Anassagora, nel contempo, parla di un intelletto, un principio quasi divino, regolante la forza naturale attraverso le omeomerie, elementi infiniti e immutabili, presenti in ogni cosa, intelletto, insito nelle cose.
Qualche tempo dopo, Socrate ribalta il problema della natura dalla natura cosmica a quella umana e apre il problema filosofico della natura in quanto umana essa stessa, problema che sarà ripreso e sviluppato in Platone prima e in Aristotele dopo. La disposizione interiore, dunque, è l’essenza della natura umana (daimon) verso il bene (eudaimonia). Il compito del filosofo è sapere cosa è il bene. “So di non sapere”, La proposizione di partenza del “So di non sapere”, che il grande filosofo chiamerà “ironia maieutica”, traduce il “Conosci te stesso” iscritto sulle antiche acropoli. Il bene se universale e necessario, corrisponde così alla suprema legge della città. Il che comporta che il bene o è comune o non è il bene, ma, attraverso la conoscenza di se stessi (dimensione individuale), si può accedere alla conoscenza del bene (dimensione universale).
Platone, per parte sua, introduce in una sua celebre opera, il Timeo, un concetto di natura con proiezioni finalistiche, nel senso che essa non è governata da leggi meccanicamente cieche, ma contiene un principio che la orienta, potremmo dire che le fa da guida verso il Mondo delle idee pure, e tale principio trova la sua identificazione in un Demiurgo o Anima del mondo. Ma nella natura vi è pure un principio oscuro e amorfo, causa di imperfezione, di disordine e di male, principio identificabile nella materia. Quest’ultima fa da forza di resistenza all’azione del Demiurgo fino a produrre una copia o una imitazione delle idee pure, creando così una molteplicità di cose rispetto all’unico modello ideale ed eterno. Secondo tale sua dualistica concezione, egli finisce per identificare la materia nel Non-essere, nell’indeterminato, nel caos, nella selva oscura (di dantesca memoria).
Si giunge così ad Aristotele, il quale si contrappone con assoluta decisione al meccanicismo atomistico democriteo (come, per parte sua, aveva già fatto il suo maestro Platone). Egli afferma che l'evoluzione di un essere vivente non può essere il risultato di semplici combinazioni occasionali di atomi: leggi proprie, invece, operano dall'interno, e ne connotano la "sostanza", in maniera diversa dai meccanismi semplici di causa-effetto che agiscono dall'esterno, la cui funzione è legata all’accidentalità". Per Aristotele ogni organismo si presenta in forma unitaria, come entelechia, cioè come entità capace di contenere il criterio che le consente l’evoluzione. Quattro sono le cause responsabili dei mutamenti della natura: la causa formale, che consiste nelle qualità specifiche dell'oggetto stesso, nella sua essenza; la causa materiale secondo la quale la materia è il sostrato senza cui l'oggetto non esisterebbe; la causa efficiente, che è l'agente che determina operativamente il mutamento; la causa finale, considerata fondamentale, poiché in essa risiede un'intenzionalità insita nella natura, il motivo basilare per cui una certa realtà esiste. All'origine, anche della cosmologia aristotelica, è posto il tentativo di pervenire a spiegazioni qualitative della natura, capaci di tenere conto dell'essenza, oltre che del dato quantitativo. Tale tentativo recupera in parte Empedocle e la su teoria dei quattro elementi: terra, aria, fuoco e acqua. Secondo Aristotele, dunque, le varie composizioni degli elementi costituiscono tutto ciò che si trova nel mondo. Ogni elemento possiede due delle quattro qualità (o «attributi») della materia: il secco (terra e fuoco); l'umido (aria ed acqua); il freddo (acqua e terra); il caldo (fuoco e aria). Egli, in polemica con i filosofi atomisti, quali Democrito, si contrappone senza rimedio alla concezione dell'esistenza del vuoto onde consentire ai quattro elementi di potersi muovere, tendendo ciascuno verso il suo "luogo naturale", in accordo con la sua concezione finalistica dell’esistenza.
La concezione della natura e la particolare visione cosmologica aristoteliche condizioneranno parecchio l’intero sistema del pensiero fino alle soglie dell’età moderna, trovando suoi fautori fra i neo-aristotelici e fra questi Telesio, Bruno e Campanella. Costoro, infatti, affermano che la natura è la stessa cosa che Dio, o quasi. In essi – se si tiene conto di alcune sfumature di diversità – la natura è tutta la realtà possibile, essa è la norma di tutto, tutto da essa parte e tutto ad essa ritorna, essa è la regolatrice di ogni processo. Vediamone ora il pensiero in fasi successive.
Telesio considera la natura come un mondo a sé, un mondo autonomo, un mondo che si regge solo sui suoi stessi principi e solo in base a tali principi può essere spiegato, ogni forza metafisica, in tale compito di svelamento, è completamente estranea a quei principi. L’uomo, dunque, in quanto essere sensibile, è esso stesso natura e per conoscere quest’ultima può affidarsi solo ai suoi stessi sensi.
In Giordano Bruno l'uomo viene restituito a se stesso e reso padrone della propria sorte. Divenuto egli centro consapevole del proprio mondo, riconosce la grandezza e il significato della natura , dell’universo fisico che lo circonda, ne comprende l’immensità, le forze inesauribili, le forme infinite, l’estensione senza barriere. Frantuma l’immagine di un mondo simile a una grande casa, chiusa da sfere cristalline e immutabili. Liberato da una falsa concezione del divino, proprio nel punto in cui conquista l’autonomia del morale, l’uomo ha il coraggio di liberarsi da una visione primitiva del mondo. Egli sa di non essere il centro fisico dell’universo, ma è consapevole della potenza della propria ragione e delle proprie risorse. Recuperando, fra l’altro, la centralità dell’uomo rispetto al mondo morale, nega la visione antropomorfica nello stesso momento che nega la visione geocentrica dell’universo esistente. Scaturisce dall’insieme una concezione del mondo fisico e di quello morale che rappresenta una inversione di tendenza rispetto alle precedenti concezioni e pone le fondamenta delle caratteristiche del mondo moderno e, in un certo senso, di quello contemporaneo. Egli, in effetti, libera l’uomo in due modi diversi ma contigui, lo libera prima dalla superstizione e, di conseguenza, dalla mortale schiavitù delle mille forme della dipendenza e della servitù: servitù culturale, servitù politica, servitù religiosa e altre formule correlate della servitù stessa. Libera l’uomo dalla natura stessa, liberandolo dalla falsa concezione che la stessa non possa essere dominata e modificata, recuperando, nel contempo, il concetto di scienza, intesa come strumento al servizio dell’uomo per potersi aprire le vie verso una diversa visione della conoscenza, capace di rivelare alla mente dell’uomo l’idea della possibilità dell’esistenza di mondi infiniti, di spazi sconfinati dentro al sistema universale.
Tommaso Campanella, per parte sua, segue la scia del pensiero del naturalismo di Telese, ipotizzando, tuttavia, ulteriori piste di riflessione e di sviluppo. Egli sostiene, in accordo con Telese, che la natura vada indagata e conosciuta nei suoi principi fondativi. Poi egli ne indica, in particolare, tre: il caldo, il freddo e la materia. Poiché ogni essere è di per sé formato da questi tre elementi, se ne deduce che gli esseri della natura sono tutti forniti di sensibilità, essendo la struttura della natura comune a tutti gli enti. Già Telesio riteneva che anche i sassi possono conoscere, ma Campanella si spinge molto oltre, ipotizzando come cosa certa che anche i sassi conoscono, perché nei sassi sono riscontrabili i tre principi, vale adire il caldo, il freddo e la massa corporea, cioè la materia di cui essi stessi sono costituiti. Il sistema della conoscenza in Campanella, dunque, risulta fondato su criteri gnoseologici di tipo sensistico. La razionalità stessa è conseguenza della sensazione, il che significa che una conoscenza razionale intellettiva non può che scaturire da quella sensitiva. Egli, pertanto, in contrapposizione a Telesio, al fine di riconoscere all’uomo il valore che gli compete nella natura, introduce, tramite il suo pensiero, l'esistenza di due modi del conoscere: il primo è innato, e si manifesta attraverso l’autocoscienza interiore; il secondo, invece, si manifesta attraverso il vedere esteriore, che si avvale della capacità conoscitiva dei sensi. Il primo dei due modi viene definito ‘sensus additus’, che è la conoscenza di sé; il secondo ‘sensus abitus’, che è la conoscenza del mondo esterno. La conoscenza del mondo esterno appartiene a tutti, anche agli animali; la conoscenza di sé, invece, appartiene solo all’uomo, ed è la capacità suppletiva o aggiuntiva che l’uomo ha di avere la coscienza di essere un “essere pensante”.
Galileo Galilei rappresenta un punto di rottura e di avanzamento rispetto ad Aristotele e alla sua visione cosmologica di tutto quanto è. Egli si proietta, quindi, oltre i neo aristotelici, dando vita a una tenacissima battaglia contro il principio di autorità, rivendicando alle sensate esperienze il valore di verità incontestabili, in quanto dimostrabili e verificabili. Proprio sulla scorta delle certe dimostrazioni egli evidenzia, affermandola e confermandola, la teoria copernicana dell’eliocentrismo rispetto alla immaginazione geocentrica tolemaica, e il tutto avviene in aperto scontro con la visione biblico-teologica dell’universo. Ma Galilei rivendica con fermezza, sostenuta dai fatti e dalle dimostrazioni, l’autonomia dalla Chiesa e dalle Scritture della ricerca scientifica. Egli afferma, in proposito, che la Bibbia non è certamente un testo scientifico, esso è ispirato da Dio per ben altri motivi. Il suo compito, dunque, è quello di ispirare agli uomini quelle verità non raggiungibili né dai sensi né dalle verifiche e dalle dimostrazioni matematiche. Proprio per le diverse finalità che esse hanno, la scienza e la Bibbia devono essere libere nelle rispettive ricerche all’interno dei loro diversi campi ed esperienze. Ciò implica che la scienza debba avere il diritto garantito di potere avere un proprio metodo, fondato sul ricorso all’esperienza, non intesa quest’ultima come un “ovvio naturale vedere le cose”. Tale metodo, lontano dagli antichi modi del semplice ricorso ad atti di pura intuizione, si serve di un ricorso ai calcoli e alle misure, alle verifiche e agli esperimenti tipici delle scienze matematiche e di quelle ad essa direttamente connesse, scienze capaci di garantire la certezza del risultato. La matematica, in effetti, è già contenuta nella natura stessa, che appare scritta, a sua volta, in caratteri tali da riprodurre triangoli, cerchi e altre figure geometriche. Il linguaggio matematico, dunque, è diretta rivelazione della natura che ne fa dono all’umanità. Nel pensiero filosofico galileiano è negata all’uomo la possibilità di conoscere le essenze o le forme sostanziali delle cose, che solo Dio può, invece, conoscere. Le qualità sensibili non sono nell’oggetto ma nel soggetto, quindi esse possono essere percepite e definite soggettivamente. Alla scienza della natura, se ne deduce, spetta il compito di studiare le qualità oggettive dei corpi, che sono misurabili, quindi scientificamente traducibili nelle forme della verità.
Anche Cartesio considera la matematica quale nuovo strumento scientifico per l’indagine e per la conoscenza della natura, egli vede in essa la Scientia scientiarium , l’unica in grado di porre l’ordine e la misura in tutte le cose: nella medicina, nell’astrologia in altre discipline collaterali, per questo egli la definisce “matematica universale” per distinguerla da quella comunemente intesa. Nel Discorso sul metodo, poi, egli stabilisce le regole per ottenere i risultati davvero positivi nella conoscenza: la regola dell’evidenza, la regola dell’analisi, la regola della sintesi, la regola dell’induzione o dell’enumerazione. A rafforzamento delle regole e della sua tesi del dubbio metodico, introduce il principio del dubbio iperbolico, secondo il quale si rende necessario un certo atteggiamento di prudenza, di fronte al principio dell’evidenza, anche rispetto alla matematica, al fine di potere dimostrare anche tramite il pensiero, il Cogito ergo sum, l’esistenza della res cogitans che di per sé non è dimostrativa dell’esistenza della res extensa, ne nasce dunque un dualismo nella distinzione tra l’anima e il corpo, dal quale, poi, scaturisce l’indipendenza dell’anima dal corpo e la sua stessa eternità rispetto a quest’ultimo. Nella concezione della natura cartesiana, la stessa è caratterizzata dall’estensione: la materia, dunque, viene concepita come ciò che ha estensione nello spazio. Le qualità fisiche dei corpi materiali, come in Galilei, sono considerate quali nozioni soggettive che lo spazio determina in noi, perciò non possono essere oggetto della conoscenza scientifica, non sono misurabili e verificabili matematicamente. Scientificamente si possono conoscere solo la forma, la dimensione, le grandezze e il movimento. Il mondo ha una estensione infinita, è costituito ovunque della stessa materia, che è infinitamente divisibile, non è concepibile, pertanto, il vuoto, tutto è occupato dalla materia. Anche Cartesio, come Galilei, accetta la visione cosmologica di Copernico, condividendone in pieno la concezione eliocentrica.
Elementi di novità si riscontrano in Spinoza, che, dopo Cartesio, espone la propria concezione dell’ordine della natura, sottolineando le differenze, a tratti notevoli, rispetto alle concezioni dei suoi grandi predecessori. Secondo la sua concezione, le affezioni e gli affetti, i vizi e le virtú, fanno parte della natura e possono essere studiati con un ordine geometrico, come tutto il resto della realtà. Essi, dunque, non avrebbero, come appariva essere in Galilei e in Cartesio, una determinazione soggettiva ma oggettiva allo stesso modo della res extensa, possono essere, dunque, misurati e verificati alla stessa maniera delle forme, delle grandezze e dei movimenti. Nella natura, egli dice, nulla accade che possa essere attribuito a un suo vizio; infatti la natura è sempre la stessa e la sua potenza di agire è ovunque una sola e medesima, ossia le leggi e le norme della natura –secondo le quali ogni cosa accade e la stessa cosa da una forma si muta in un’altra – sono ovunque e sempre le medesime, e perciò anche il modo d’intendere la natura di tutte le cose, quali che siano, deve essere uno e medesimo, ossia in base alle leggi e alle norme universali della Natura stessa. Quindi gli affetti dell’odio, dell’ira, dell’invidia, ecc., in sé considerati, derivano dalla stessa necessità e virtú della natura, come le altre singole cose; e perciò ammettono determinate cause per mezzo delle quali vengono conosciuti e hanno determinate proprietà degne della nostra conoscenza come le proprietà di qualunque. Spinoza, dunque, disserta della natura e delle forze degli affetti e del potere della mente su di essi, con lo stesso metodo con cui tratta di Dio e della mente, e considera le azioni e i desideri umani come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi, di forme e di movimenti.
Il percorso si conclude con Kant che compie l’estremo tentativo si sintetizzare nell’Io puro, tramite l’intelletto, il dualismo cartesiano della Res cogitans e della es extensa. Stando al suo pensiero il tormento della ragione umana è posto dalla natura stessa: essa, in effetti, evidenzia dei limiti. La ragione, egli afferma, non può penetrare i confini della metafisica, poiché, quando la ragione supera se stessa, cade in sofismi e false ipotesi, come quando pone le idee di Dio e di anima. La matematica e la fisica, dunque, intervengono a porsi come conoscenze propedeutiche alla ragione medesima, che ha bisogno di piegare la natura alle sue domande invece di subirle. Per riuscire in tale compito essa deve prospettare alla natura principii suoi, e, in questo risiede quella che, poi, viene definita “la rivoluzione copernicana del pensiero. Secondo la nuova concezione del rapporto uomo-natura, la natura risulta essere un insieme di fenomeni i cui principi scaturiscono dalla forma data loro dalla ragione, quindi non le sono insiti o contenuti da sempre, come, invece, in Galilei. Per Kant le leggi sono nell’io e, in quanto tale, non risulta possibile la conoscenza del noumeno, della cosa in sé, che è, invece, competenza della metafisica. La cosa in sé è possibile come pensiero e non come conoscenza, quest’ultima è legata all’intuizione sensibile, una forma della conoscenza compatibile con la capacità di sintesi dei dati delle scienze. Anche lo spazio e il tempo sono forme a priori, si trovano nel nostro spirito e hanno un valore universale: lo spazio inquadra i dati sensibili del mondo esterno; il tempo, invece, inquadra i fenomeni interiori. La natura, pertanto, risulta costituita di fenomeni che noi colleghiamo con i nessi di causa ed effetto, vale a dire due fra le categorie dell’intelletto; al di sotto dei fenomeni c’è la cosa in sé: la conoscenza così risulta essere il frutto di una sintesi a priori.
Mai quanto oggi il conflitto fra uomo e natura è stato tanto grande, a volte drammatico, l’uomo con i suoi potenti mezzi tenta in ogni modo di deviare il destino della sua stessa generatrice, cerca di soggiogarla e di porla al suo servizio, nel ruolo di ancella, umiliandola nel contempo, sia nel corpo, che appare sempre più sofferente, che nello spirito. Il rischio che si corre è deflagrante molto più di una semplice esplosione atomica, l’ipotesi è quella di un possibile e irreversibile disastro universale, i cui segni già appaiono un po’ di qua e un po’ di là. La necessità della ripresa del dialogo uomo-natura si fa sempre più urgente, i segnali che arrivano sono questi. Si pensa alla urgenza di una più mirata attenzione filosofica e alla costruzione di una rinnovata visione antropologica del rapporto. «La speranza, mai sopita, è che l’uomo, dopo le disattenzioni e gli scempi compiuti negli ultimi decenni, si riavvicini alla natura madre e amica, riconoscendo nella stessa il luogo e il mezzo della sua origine, prendendo, nel contempo, coscienza di alcuni suoi limiti, cercando di ampliare la conoscenza, al fine di potere riorientare il suo agire verso una maggiore consapevolezza di essere egli-uomo parte di un progetto universale che travalica i confini sia del tempo che dello spazio» (dalla tesi per la maturità classica di Fabiola Sanfelice, Natura madre e maestra, Istituto di Istruzione Superiore Telesi@ - Liceo classico – Telese Terme (BN) – Anno scolastico 2012 / 13).