1)Albert Camus e il suo tempo - (N.B. - Le note alla fine del testo) -
Il Camus si muove nell’arroventato clima dell’esistenzialismo in generale e di quello letterario in particolare. Senza la pretesa qui di caratterizzare nei dettagli la dottrina filosofica di tale movimento culturale, mi limito a ricordare che lo stesso trova i suoi epigoni nelle “meditazioni” di un geniale scrittore danese, il Kierkegaard, il quale dalla più ostinata analisi della sua stessa vita interiore, considerata come un agglomerato di sentimenti[1], trasse alcuni principi fondamentali che vennero teorizzati, poi, in vario modo da Heidegger, Jaspers, Merleau-Ponty. Al centro della ricerca di tali sommi pensatori è posto il principio della distinzione tra Ente e Esistente, e, di riflesso, il principio della incomunicabilità. La filosofia dell’Esistenzialismo, o la visione del mondo di tale movimento prende grande sviluppo in Europa negli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale, e, a maggior ragione, durante e subito dopo l’immensa catastrofe. Accolta con una sorta di cupo entusiasmo, attecchisce soprattutto in Francia in quanto lenitiva, in un certo senso, del pessimismo nichilista – ampiamente denunciato dal Nietzsche – che aveva improntato di sé la parte maggiore e più viva della letteratura dal 1920 in poi. Ed è proprio dall’incrocio dell’esistenzialismo e del nichilismo che viene fuori l’interessantissimo fenomeno culturale dell’esistenzialismo letterario. In quest’ultimo si possono genericamente individuare tre indirizzi di rotta, o correnti, nate dal senso dato loro dai singoli scrittori nel tentativo di trovare una via di salvezza, quindi di uscita dal labirinto stagnante del pessimismo, riflesso canceroso dell’assurdità della condizione umana e dell’incomunicabilità, della conseguente solitudine:
2)L’Esistenzialismo in Albert Camus Benché apparentato, in certa misura, all’esistenzialismo, A. Camus ne rimane per buona parte staccato, avendo egli legato il suo nome a una particolare visione della medesima dottrina. : «Non si può cercare in Camus un sistema di pensiero filosofico e speculativo coerente, fondato su premesse che non siano sperimentali: di qui le sue irrisolte contraddizioni»[3]. Secondo il nostro Autore “la grandezza dell’uomo consiste nel superarsi in un atteggiamento di orgogliosa rivolta contro l’assurdità del mondo»[4]. Nel suo pensiero “Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva le rocce. Anche lui giudica che tutto va bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli sembra né sterile, né gentile. La lotta verso le cime basta a riempire il cuore di un uomo”[5]. In effetti “Camus rimprovera ai numerosi filosofi esistenzialisti e fenomenologisti, cristiani o no, di operare nel loro itinerario filosofico un salto qualitativo, che egli non esita a considerare un vero e proprio suicidio filosofico. In altri termini, in costoro il riconoscimento e l’esperienza del carattere tragico e assurdo della condizione umana, sfociano in una accettazione della vita o di un principio superiore come unica forza capace di risolvere queste insanabili contraddizioni e di appagare il desiderio di eternità iscritto nel cuore umano”[6]. Pare che egli si chiedesse per meglio capire se stesso e la complessità del tempo: «Con che diritto un cristiano o un marxista mi accuserebbero di pessimismo. Non sono io ad avere inventato la miseria della creatura, né le terribili formule della maledizione divina. Non sono io ad avere gridato quel “nemo bonus”[7], né la dannazione dei bambini senza battesimo. Non sono io ad avere detto che l’uomo era incapace a salvarsi da solo e che dal fondo della sua prostrazione non aveva altra speranza che la grazia di Dio»[8]. A questo proposito si ricorda che egli “cercava, e non soltanto per lui stesso ma per tutti gli uomini, la salvezza e, dunque, molto più che la felicità. Di qui il carattere non laico della sua opera. Ma questa salvezza è di natura terrestre: ha, dunque, un carattere propriamente umano, non è l’opera di un salvatore, ma di un qualcuno che ha scoperto una ricetta, un modo di vivere per alleviare il dolore degli uomini, e lo comunica loro; predicando con l’esempio diventa a sua volta un santo, vale a dire un modello incarnato, che trascina altri uomini a diventare dei modelli”[9]. In una sua lettera[10] afferma: «L’esistenzialismo è una filosofia completa, una visione del mondo che suppone una metafisica e una morale. Benché mi accorga dell’importanza storica di questo movimento, non ho abbastanza confidenza nella ragione per entrare in un sistema»[11]. […] Su Tempi Moderni si sviluppa, anni dopo, la polemica del Camus con André Breton, il padre del surrealismo, e, soprattutto, con Jean-Paul Sartre. La disputa con Sartre, come già quella con Francis Jeanson, si fonda sui principi della rivolta e della rivoluzione. Per Sartre “la semplice rivolta è sterile, perché mantiene gli abusi della società, dato che questi abusi sono, appunto, la condizione necessaria perché la rivolta possa manifestarsi”[12]. Per il Camus “essa non è ben definita, quando si dice, come i nostri esistenzialisti ad esempio (sottomessi anche loro, per il momento, allo storicismo e alle sue contraddizioni), che vi è un progresso dalla rivolta alla rivoluzione e che l’uomo in rivolta non è nulla se non è rivoluzionario. La contraddizione è, in realtà, più stretta. Il rivoluzionario è, al tempo stesso, in rivolta e, allora, non è più rivoluzionario, ma poliziotto e funzionario, che si dirige contro la rivolta. Ma se è in rivolta finisce per mettersi contro la rivoluzione. Così che non c’è progresso da un atteggiamento all’altro, ma simultaneità e contraddizione, che aumentano continuamente. Ogni rivoluzionario finisce per essere oppressore o eretico. Nell’universo puramente storico, che hanno scelto, rivolta e rivoluzione sfociano nello stesso dilemma: o la polizia o la follia”[13]. La spaccatura con le altre due forme di esistenzialismo è, dunque, evidente, sullo sfondo della polemica compare sempre una lotta a distanza con il marxismo a cui gran parte dell’esistenzialismo si è rifatto. Il Nostro afferma che: «Se non ci sono valori eterni, il comunismo ha ragione, non si deve mercanteggiare il prezzo che si mette a edificare una nuova società; altrimenti, è il vangelo. Una sintesi, per quanto auspicabile, gli sembra impossibile. Eppure non poteva ammettere né il regno della violenza, né quello dell’ingiustizia»[14]. E, ancora più esplicitamente rincara che: «Marx ha introdotto di nuovo nel mondo de-cristianizzato la colpa e il castigo, ma di fronte alla storia. Il marxismo, in uno dei suoi aspetti, è una dottrina della colpevolezza rispetto all’uomo, di innocenza e rispetto alla storia. Lontana dal potere, la sua traduzione storica era la violenza rivoluzionaria; al vertice del potere rischiava di essere la violenza legale, vale a dire il terrore e il processo»[15]. In fondo, la sua lotta contro un certo esistenzialismo è la lotta contro ogni valore finalistico e finirà per dire: «I valori per i Greci erano preesistenti a ogni azione di cui segnavano giustamente i limiti. La filosofia moderna pone i suoi valori alla fine dell’azione»[16]. Dunque “se egli rifiuta la rivoluzione non è soltanto perché essa comporta sempre una inammissibile violenza, ma anche perché sacrifica ad un certo avvenire la condizione attuale e incarnata dell’uomo”[17]. Inoltre “il peggiore materialismo consiste nel far passare delle idee morte per realtà vive, e, in ogni caso, a far morire degli uomini, o a ucciderli, in nome di una idea”[18]. E ecco una espressione significativa del pensiero camusiano: «Il nostro compito di uomini è di trovare le poche formule che calmeranno l’angoscia infinita delle anime libere»[19]. Il Camus preferisce ancorarsi in una riserva piena di perplessità, piuttosto che naufragare in una ideologia incondizionatamente accettata. Alcuni pensano che “si può non condividere talvolta il suo scrupolo della verità, ma ai cianfruglioni contemporanei, e, soprattutto, ai frenetici di ogni ideologia, bisogna ripetere anche oggi – oggi che il disordine dell’epoca lo ha reso falsamente inattuale – che la vera intelligenza, la sua vittoria, pur nel corpo a corpo con il presente, tornerà di lontano”[20]. Ma “l’attualità del grande scrittore è indicata nel dono di mantenere aperta, proprio sul filo delle utopie contemporanee, la questione del destino e dell’uomo”[21]. 3)Il principio della salvezza in Albert Camus Il pensiero camusiano si apre, e si dilata progressivamente, su tre temi fondamentali:
«L’opera di un uomo non è altro che questo lungo cammino per ritrovare attraverso i rigiri dell’arte le due o tre immagini semplici e grandi sulle quali il cuore, una prima volta, si è aperto. Ecco perché, forse, dopo vent’anni di lavoro e di produzione, continuo a vivere con l’idea che la mia opera non è neppure cominciata»[22]. Si può ritenere contenuto in pieno il Camus in questa sua dichiarazione. Dalla lettura globale della sua opera “i limiti della sua riflessione filosofica appaiono chiari, perché – eccellente nel denunciare e combattere le insidie che minacciano la vita e la dignità umana – Camus non può superare lo stadio della negazione, di ciò che nega l’esistenza dell’uomo […] ma sembra opportuno ricordare la coerenza e la sincerità di questa esperienza sull’esistenza che preferisce ancorarsi in una riserva piena di perplessità, piuttosto che naufragare in una ideologia incondizionatamente accettata”[23]. Egli “aveva affrontato direttamente grandi problemi che lo ossessionavano, si era sforzato di trovare loro una soluzione, almeno di portare un sollievo alla sofferenza umana. Ma senza che si trattasse di una dissimulazione volontaria, sembrava avere coscienza, in un’altra parte di sé, di un segreto che non era fatto per essere rivelato”[24]. D’altra parte, Camus stesso afferma che: «Nessun uomo può dire ciò che è. Ma capita che possa dire quello che non è. Si vuole che colui che cerca ancora abbia già concluso. Mille voci gli annunziano già quel che ha trovato, eppure, lui lo sa, non è quello»[25]. Benché la parola salvezza ricorra raramente sotto la penna dello scrittore, il problema si impone in tutti i suoi libri. Non si tratta, è superfluo ricordarlo, di una concezione cristiana, egli stesso ci ricorda che: «Uomini che la terra basta a contentare devono saper pagare la loro gioia con la loro lucidità e, fuggendo la felicità illusoria degli angeli, accettando di amare soltanto ciò che deve morire»[26]. L’uomo, dunque, troverà la sua salvezza solo nel ristretto ambito della sua esperienza terrena, al di là delle parole, si trova solo il vuoto eterno. Salvarsi significa per l’uomo prendere coscienza della propria dignità, accettare la vita dolorosa e assurda che gli è stata imposta[27], e rivoltarsi contro l’ingiustizia in uno spirito di concordia e di solidarietà con i suoi simili[28]. Insomma, pare che egli fosse orientato a essere uomo con gli uomini contro Dio. E sempre il Nostro lapidariamente afferma che: «La vera generosità rispetto al futuro consiste nel dare tutto al presente. In quest’ora in cui ciascuno di noi deve tendere l’arco per dare di nuovo prova di sé, per conquistare nella storia e contro la storia, ciò che egli possiede già: la magra messe dei suoi campi; il breve amore di questa Terra, nell’ora in cui nasce finalmente un uomo, bisogna lasciare l’isola dei furori adolescenti»[29]. Ed allora, in un universo improvvisamente svuotato di illusioni, di luci, quale possibilità si offre all’uomo che vive per superare questo divorzio con la vita, questa estraneità con il mondo? La liberazione sta nella coscienza del non-senso della vita. Condannato ma lucido, l’uomo imparerà a conoscere il valore della sospensiva e l’esaltante libertà che vi scopre. Il non-senso della vita diviene la condizione di una vita più grande. Mantenere, dunque, questo non-senso con uno sforzo di coscienza, sempre rinnovato, sarà il destino dell’uomo assurdo. Egli rifiuterà di entrare in tutte le religioni, in tutte le filosofie, in tutte le dottrine, le quali, proponendogli una spiegazione generale dell’universo, l’alleggerirebbero del peso del suo masso. In altri termini, nel campo limitato della sua esistenza senza affetto egli ridiventa padrone di se stesso[30]. Rifiutando la consolazione della fede e della speranza, Camus evita l’ottimismo, ma non cade nella disperazione. Per essere disperati bisogna non credere in nulla. Ora, dal più profondo del suo essere, egli crede nella vita presente, nei valori che si possono trovare, e se non ha speranza non dispera ugualmente. E afferma che: «Non vi è amore di vivere senza disperazione di vivere»[31]. Senza la speranza la vita può essere vissuta in una rivolta continua che annulli la disperazione. Solo la rivolta permette di scoprire ciò che è veramente umano. Se vivere è rassegnarsi e, se nell’assenza di speranza, vivere è dare tutto al presente, la vita esiste insieme alla rivolta. Superando, quindi, il nichilismo, la rivolta è la rinascita che “senza pretendere di risolvere tutto, può almeno cambiare qualcosa”[32]. L’estrema sintesi della visione della vita dello scrittore sembra riflettersi in questa sua affermazione, in essa è annidato il concetto di umanesimo esistenziale che da lui prende origine: «Noi sappiamo che la salvezza degli uomini è, forse, impossibile, ma diciamo che non è questa una ragione per cessare di cercarla, e, soprattutto, che non è permesso definire tale ricerca impossibile, prima di avere fatto, una buona volta, ciò che bisognava fare per dimostrare che non lo era». 4)Analisi del romanzo “La Caduta” Nove anni dopo la cronaca del dottor Rieux[33], ecco la confessione pubblica di Jean Baptiste Clamence[34]. Malgrado il sentimento della colpa che lo opprime, egli non può trovare un giudice in grado di poterlo riconoscere colpevole. Per Mearseault[35] il problema è quello di accettare la morte, per Clamence, è quello di accettare la vita. il primo sente rifluire in lui la felicità che ha misconosciuto e, salutando la vita, trova nel passato la forza di accettare il presente; il secondo, invece, domanda soltanto al passato di datare l’inizio della sua caduta. Ma cerchiamo, ora, di seguire il Camus lungo il percorso dell’intelaiatura narrativa de La Caduta, opera quest’ultima che rappresenta un po’ La sintesi, e nel contempo l’analisi, del suo pensiero. In un bar di Amsterdam un uomo monologa. Egli, alcuni anni prima, era un brillante avvocato parigino: amabile, generoso, godeva intensamente della sua natura e dell’ammirazione altrui, una sorta di euforia lo rendeva pienamente soddisfatto di se stesso. Un uomo, dunque, in perfetta salute, ricco, ammirato, apprezzato, amato dalle donne, insomma nel pieno diritto di essere felice. E un uomo di tal fatta che mai può chiedere alla vita se non di essere sempre uguale a se stesso? E egli pensa tra sé e sé: «A forza di essere ammirato, mi sentivo, esito a dirlo, un designato, designato personalmente tra tutti, per questa lunga e costante riuscita…»[36]. Ma, una sera, mentre rincasa, passando su di un ponte, egli sente ridere dietro di lui, sente il riso di una bocca invisibile che sembra affiorare dall’acqua del fiume. La sua coscienza, improvvisamente, si risveglia, la memoria gli ritorna, la caduta comincia. Non sentendosi più a suo agio nel presente, interroga il suo passato, ma è per scoprire, con sua sorpresa, certe istantanee accusatrici: una disputa tra automobilisti; la vanità di maschio con un’amante che ha lasciato; un grido da lontano. Clamence, dopo il riso enigmatico, inizia un cammino di conoscenza di sé, comprende, allora che: la modestia lo aiutava a brillare; l’umiltà lo aiutava a vincere; la virtù lo aiutava a opprimere. Ma scopre, soprattutto, la sua profonda indifferenza verso tutto ciò che non lo riguardava direttamente, quindi dice a se stesso: «In fondo non c’era niente che contasse. Guerra, suicidio, amore, miseria, vi prestavo attenzione, certo, quando le circostanze mi forzavano, ma in una maniera cortese e superficiale»[37]. Si accorge, allora, che la sua indifferenza, la sua capacità di oblio, lo hanno trascinato alla superficie della vita in una specie di deriva. Nel momento in cui egli si accorge di quello che è veramente, il bisogno impetuoso di confessarsi lo afferra e non lo lascia più. «Ero tormentato dall’idea che non avrei avuto tempo di portare a termine il mio compito. Quale compito? Lo ignoravo. Per essere franco quel che facevo metteva conto di essere continuato? Ma non era questo il punto. In effetti ero perseguitato da un ridicolo timore: che non si potesse morire senza avere confessato tutte le proprie menzogne. Non a Dio, o a uno dei suoi rappresentanti, ero superiore a questo, lei lo capisce. No, si trattava di confessarlo agli uomini, ad un amico, o ad una donna amata. Altrimenti, quand’anche non ci fosse stata in una vita, che una sola menzogna nascosta, la morte l’avrebbe resa definitiva. Nessuno, mai più, avrebbe conosciuto la verità su quel punto, poiché il solo a conoscerla era proprio il morto, addormentato col proprio segreto. Questo assassino totale di una verità mi dava le vertigini»[38]. Non potendo, quindi, trovare un giudice dal quale essere condannato, egli chiude il suo studio di avvocato, lascia Parigi e viene in questo bar di Amsterdam a fissare il suo tribunale di giudice penitente. Questo uomo di legge, questo brillante avvocato delle nobili cause, ha, infatti, fatto una scoperta: se noi non possiamo affermare l’innocenza di nessuno, possiamo con fermezza affermare la colpevolezza di tutti. Mettere in luce la colpevolezza comune è il fine cui tende Clamence nella sua confessione pubblica. Costruendo un ritratto sincero di se stesso, il ritratto di un colpevole, egli costruisce il ritratto dei suoi simili. Egli, infatti, afferma: «Prendo i tratti comuni, le esperienze sofferte insieme, le debolezze che abbiamo entrambi, le buone maniere, l’uomo del giorno, insomma, come infierisce in me e negli altri. Così io costruisco un ritratto che è di tutti e di ciascuno»[39]. Ma, al tempo stesso, il ritratto che egli tende ai suoi contemporanei, diviene uno specchio per se stesso: «Più mi accuso e più acquisto il diritto di giudicarvi. Non solo, ma io la provoco a giudicare se stesso, il che mi è di altrettanto sollievo. Ah! Cara mia, siamo strane, miserabili creature, e per poco che rivanghiamo le nostre vite, non mancano occasioni di stupirci e di scandalizzarci. Provi. Stia tranquillo che ascolterò la sua confessione con un grande sentimento di fraternità»[40]. Allora, da penitente, Clamence diviene giudice: ogni uomo testimonia del crimine di tutti gli altri. Ecco la sua fede e la sua speranza. Originariamente La Caduta[41] doveva far parte di una raccolta di novelle, soltanto la lunghezza dell’insieme le valse di essere pubblicata a parte Tali novelle, unite, poi, sotto il titolo comune “L’Esilio e il Regno”, si ispirano, in effetti, allo stesso sentimento di insoddisfazione che dà la parola a Clamence, anche se, nello stesso tempo, aprono un nuovo ciclo nell’opera del Camus[42]. Stilisticamente il racconto si presenta come un lungo monologo sapientemente movimentato da descrizioni di Amsterdam nella quale Clamence e il suo interlocutore passeggiano dopo il fortuito incontro nel bar di Mexico-City. Sentiamo, in proposito, il protagonista: «D’altra canto, questo paese mi ispira, amo questa gente che formicola sui marciapiedi, costretta in un piccolo spazio di case e acqua, assediata da nebbie, da terre fredde, da un mare che fuma come un bucato. Mi piace perché è duplice. Sta qui ed è altrove»[43]. Il tono disincantato della descrizione di vasti e illuminati paesaggi, tipico di Nozze[44], cede qui il passo a una satira stretta e serrata: il paesaggio è l’anima umana sono uniti in un unico sentimento di tristezza: «Sognano con la testa nelle loro nuvole color di rame, girano in tondo, pregano, sonnambuli nell’incenso dorato della nebbia: non sono più qui. Sono in viaggio, a un migliaio di chilometri, verso Giava, l’isola lontana»[45]. «Lo stile dell’opera, che è sempre diretto, segna lo svolgimento dell’azione nel tempo, e, spesso, per dare alle proprie affermazioni una dimensione più generale, Clamence usa la prima persona del plurale. Gli aforismi e le massime[46], che sono con discrezione calati nel testo, velano la genesi molto elaborata del racconto»[47], che sembra essere stato ottenuto da «creazioni di immagini staccate, rese, poi, successive l’una all’altra, tramite l’utilizzo di un linguaggio frammentato, dove la punteggiatura, foltissima, assolve al compito di segnare il ritmo e il suono all’azione»[48]. Non c’è, tuttavia, impressionismo di immagini e di vocaboli: la lingua è nudamente classica, anche se rotta e frammentata, per i motivi già ricordati, le immagini interne ed esterne appaiono nella loro essenzialità formale. Ma il linguaggio, come l’immagine, ha un che di aperto, di irrisolto, a conferma del desiderio del Camus di vivere e di morire nelle contraddizioni, oltre ogni artificioso valore. Si può dire che l’estetica camusiana è tutta contenuta nel suo messaggio. «La delusione è certamente grande per chi cerchi in Camus le delizie delle immagini e dello stile. Scrittore sorvegliato e classico, egli indulge raramente alla magia della parola, preferendole la magia dell’idea. Contrariamente a molte, eccitanti, esperienze del novecento francese, egli rifiuta di rinchiudersi in un universo estetico, asettico e autosufficiente, senza nessun addentellato con i tragici problemi dell’attualità storica»[49]. Questo accordo profondo con il mondo risponde a un doppio movimento di contrazione e di apertura simile “all’oscillazione che conduce certi uomini dall’ascesi al godimento, dalla rinunzia alla profusione nella voluttà”[50]. L’interpretazione de La Caduta divide i critici e il Blanchat parla di una confessione dédagneuse[51]. È vero, comunque, che il Camus “ne La Caduta cede al gusto della logica e presenta meno la sua esperienza viva, che un’allegoria che ne è l’astratto limite[52]. Ma si sa anche che Camus[53] aveva definitivamente scoperto nel saggio “un intermediario tra la filosofia concepita come ricerca vitale della verità e dell’unità, e la poesia che emana in maniera del tutto naturale da questa ricerca”[54]. Tuttavia, “di tutte le opere del Camus è questa, probabilmente, la più sconcertante: confessione parzialmente sincera? Ritratto ironico dell’intellettuale moderno e dei suoi complessi? Messa a fuoco satirica degli strascichi polemici con gli esistenzialisti?”[55]. È possibile che, al di là dell’evidente componente satirica e umanistica, “La Caduta sia l’esplosione di un’angoscia personale sempre più forte,, anche se l’Autore non si identifica ovviamente a J. Baptiste Clamence”[56]. Senza, comunque, trascurare i suoi temi di sempre[57] sembrano essere in negabili “le allusioni a certi ambienti culturali parigini, soprattutto esistenzialisti. La polemica con Sartre e con Tempi Moderni ispira alcune pagine del libro”[58]. Nel novembre 1954 Camus afferma: «Esistenzialismo: quando si accusano si può essere certi che è per opprimere gli altri: dei giudici penitenti»[59]. E nello stesso senso si dirigono le interviste concesse dal Camus all’indomani della pubblicazione de La Caduta: «È il quadro di un piccolo profeta, come ce ne sono tanti oggi. Non annunziano assolutamente nulla, e non trovano niente di meglio da fare che accusare gli altri, accusando se stessi»[60]. La Caduta resta un punto culminante, e iniziale nello stesso tempo, nell’itinerario dello scrittore, perché crea “un’esperienza letteraria che lo conduce davanti a un muro: impossibile continuare sulla stessa strada, se non con un prodigioso balzo qualitativo, che esige nuovi rapporti tra lo scrittore e la sua opera”[61] E le novelle che seguono La Caduta, vale a dire L’Esilio e Il Regno, sono il tentativo in una direzione diversa, e, agli occhi stessi del Camus, provvisoria. Proprio perché punto culminante di un itinerario[62], prima del perseguimento di una strada diversa, La Caduta riassume in sé ogni elemento delle opere precedenti e li completa, unificandoli in una visione meno parziale della vita: dalle prime esperienze di sensualismo egoistico di Nozze ai grandi temi umanitari de La Peste e Lo Straniero NOTE 1 Da lui descritti in opere di altissimo valore letterario, che assumono spesso l’aspetto di vere e proprie funzioni narrative, improntate di una seducente vena poetica. 2 Collection littéraire, Lagard e Michard, XX siècle ; M. Bonfantini, Disegno storico della letteratura francese, La Goliardica. 3 F. Livi, Camus, il Castoro, n. 49, La Nuova Italia, gennaio 1971. 4 In Il Mito di Sisifo. 5 In op. cit. 6 F. Livi, Camus, il Castoro, n. 49, La Nuova Italia, gennaio 1971. 7 Nessuno nasce buono. 8 Camus, Conferenza ai domenicani di Latour-Moubourg. 9 Jean Grenier, A. Camus. Souvenirs, Paris, Gallimard, 1968 10 A. Camus, Lettera al direttore de La Nef, gennaio 1946. 11 In op. cit. 12 F. Livi, Camus, il Castoro, n. 49, La Nuova Italia, gennaio 1971. 13 A. Camus, L’uomo in rivolta. 14 A. Camus, I Giusti. 15 A. Camus, L’uomo in rivolta. 16 A. Camus, Prometeo in inferno. 17 F. Livi, Camus, il Castoro, n. 49, La Nuova Italia, gennaio 1971. 18 A. Camus, Il Mito di Sisifo. 19 A. Camus, I Mandorli. 20 F. Di Pilla, La vita e l’opera di Albert Camus, Fabbri, Milano, 1968 21 T. Sarocchi, Camus, Paris, Puf, 1968. 22 A. Camus, Dalla Prefazione a Il Rovescio e il Diritto, 1958. 23 F. Livi, Camus, il Castoro, n. 49, La Nuova Italia, gennaio 1971. 24 Jean Grenier, Albert Camus. Souvenirs, Paris, Gallimard, 1968. 25 A. Camus, L’Estate. 26 A. Camus, Nozze. 27 A. Camus, Il Mito di Sisifo. 28 A. Camus, in La Peste e in L’Uomo in Rivolta. 29 A. Camus, L’uomo in Rivolta. 30 A. Camus, L’Uomo in Rivolta. 31 A Camus, Prefazione alla riedizione de Il Rovescio e il Diritto. 32 A. Camus, L’Uomo in Rivolta. 33 A. Camus, La Peste. 34 A. Camus, La Caduta. 35 A. Camus, Lo Straniero. 36 A. Camus, La Caduta. 37 Op. cit. 38 Op. cit. 39 Op. cit. 40 Op. cit. 41 Oggi presente in Italia anche nelle edizioni economiche della Garzanti: prima edizione luglio 1966; terza edizione agosto 1974. Traduzione di S. Morando. 42 L’interrogativo di sempre è il problema del significato dei valori. 43 A. Camus, La Caduta. 44 Altra opera del Camus. 45 A. Camus, La Caduta. 46 Numerosi a ben vedere, isolabili addirittura, tanto da poter vivere in un contesto proprio. 47 F. Livi, Camus, Il Castoro, n. 49, La Nuova Italia, gennaio 1971. 48 Collection littéraire, Lagard e Michard, XX siècle. 49 Collection littéraire, Lagard e Michard, XX siècle; F. Livi, Camus, Il Castoro, n. 49, gennaio 1971. 50 A. Camus, La Caduta. 51 Dispregevole, di dispregio. 52 G. Picon, in S. Morawski, Assoluto e forma, Dedalo libri 1971. 53 Con La Caduta si è alla fine della sua attività produttiva. 54 R. Quilliot, la mer e les prisons, Paris, Gallimard, 1956. 55 A. Camus, Essais, a cura di R. Quilliot e L. Faucon, Paris, 1965. 56 F. Livi, Camus, Il Castoro, n.49, La Nuova Italia, gennaio 1971. 57 L’amore, la morte, la giustizia, la rivolta. 58 F. Livi, Camus, Il Castoro, n.49, La Nuova Italia, gennaio 1971. 59 A. Camus, Taccuini. 60 Le Monde. 61 F. Livi, Camus, Il Castoro, n.49, La Nuova Italia, gennaio 1971. 62 La ricerca di sempre rimane quella della posizione del Camus rispetto ai valori, che ne La Caduta sembrano avvicinarsi ad una problematica tipicamente religiosa. |
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