Il concetto di forma è ciò che sottende alla vita di ogni
uomo in ogni tempo. Egli, appena giunto nel mondo, ai primordi della vita sulla
terra, vede, tramite i suoi occhi, forme e, di fronte ad alcune di queste, se
non di fronte a tutte, prova profonda meraviglia, costata, intanto, che sono
fuori di lui, che fuori di lui c’è un mondo di cose che non sono uguali a lui,
che sono diverse, che perfino quelli simili a lui sono diversi da lui, hanno
altre sembianze, altri atteggiamenti e movenze, può notare, al contrario, meno
la sua stessa forma, che non può vedere, se non vedere a pezzi e intuire; egli
della sua forma, dunque, si fa un’idea più precisa, meno sommatoria di
segmenti, analizzando quella degli altri. Attraverso gli altri egli comincia a
vedersi, come attraverso uno specchio; comincia a vedersi quando nota, per la
prima volta, la sua ombra riflessa dalla luce su superfici che ha intorno, e,
probabilmente, a primo acchito, ne prova terrore, ritenendola cosa altra da
lui, un altro essere pericoloso e minaccioso. La forma è la parte estetica di
ciò che ognuno è, ma essa nasconde altre forme invisibili a occhio nudo, capaci
di dare colore, sapore, umore alla forma esterna: la forma della mente, la
forma dello spirito, la forma dei sentimenti e delle emozioni, la forma dei
sogni e delle speranze, dei dolori e delle delusioni, della meraviglia e della
felicità. Analizzare il concetto di forma è davvero cosa complessa e per potere
definire tale complessità una scienza da sola non basta, bisogna utilizzarle
tutte in modo concomitante e intelligente, intercalante, a volte. L’estetica,
lo studio della bellezza e del sublime che le cose nascondono o mostrano, di
ciò che l’uomo coglie in sé, in altri o in altro, può essere considerata in
tale senso una scienza multipla, ottenuta dalla somma di altre scienze, una
scienza fascinosa e complessa capace di passare al microscopio l’intima natura
di tutto quanto esiste.
L’estetica, intesa come trattazione di ciò che è bello, in filosofia ha un’origine recente. Di essa, con la definizione con cui la si identifica oggi, si hanno le prime tracce a partire dal secolo dell’illuminismo, vale a dire dal secolo XVIII. Ciò non toglie che il concetto di bello, come quello di rappresentazione artistica sia stato trascurato e, quindi, variamente affrontato e discusso nel tempo, a partire dai primordi del pensiero logico. Fatto sta che la bellezza è un evento, talmente insito nelle cose, in tutto quanto esiste, che mai è apparsa essere estranea alla visione sia della mente che dello spirito degli individui che hanno abitato e abitano questo globo di vita, che è la terra, sospeso come per evento magico e per millenni inspiegato, nello spazio dell’universo sconfinato. Parlare di bellezza è un po’ come parlare di tutto: in ogni cosa del mondo animale, come di quello vegetale e minerale, in ogni cosa che riguardi l’uomo e la sua personale esperienza di vita, possono essere individuate tracce di quello che può essere definito equilibrato, oppure armonioso, oppure talmente identico a se stesso da non potere essere assomigliato a nessuna altra cosa, oppure sublime per tutto ciò che trasmette in gioia del vedere e del godere. Bella può essere una persona, o parti e aspetti della stessa, bello può essere un animale, come lo può essere una montagna, un fiume o un mare, un cielo stellato, un albero o un’opera compiuta dall’uomo, capace, come egli è, di cogliere nelle cose, in tutte le cose, quello che di speciale, di straordinario, esse hanno il potere di comunicare; bello può essere un sentimento, un’emozione, una percezione, un pensiero, un sogno. L’estetica, dunque, altro non è che quella branca della filosofia capace di cogliere e descrivere le motivazioni per cui ciò che viene definito bello è tale, essa ha il potere di trasformare la bellezza in pensiero logico e poi in parole e di guidare – chi filosofo, artista o poeta non è – a cogliere ciò che, non a tutti appare immediatamente visibile, mimetizzandosi la bellezza nel tutto, quasi a proteggere se stessa da contaminazioni sempre in agguato. Sembrerebbe un paradosso, ma la bellezza vive nel nascondimento, non si mostra e non si pavoneggia, attende silenziosa chi la cerca e la trova, accoglie chi impara a distinguerla e ad amarla e in cambio gli dà la gioia profonda del diretto contatto con il sublime, perché la bellezza, nella sua assoluta unicità è il sublime. Vedremo nel prosieguo se questo sublime che è la bellezza oltre che colto possa essere rappresentato, e se può essere colto e rappresentato attraverso quali modi questo possa accadere.
Se i presocratici, all’origine del pensiero filosofico, si fossero occupati del concetto di bellezza, sia pure non tradotto nella parola moderna Estetica, è difficile dirlo, poiché di loro, purtroppo conosciamo solo pochissimi frammenti della loro intera produzione, e quel poco che sappiamo ci arriva per via indiretta, per voce di Socrate e di Platone che di qualcuno fra loro avevano avuto conoscenza o informazioni più o meno attendibili.
Attraverso Platone, ad esempio, e, dopo di lui, attraverso suoi discepoli, veniamo a conoscenza del concetto di armonia che aveva elaborato Pitagora intorno al sec. VI a.C. A quest’ultimo, in effetti, è possibile fare risalire le prime riflessioni che il pensiero filosofico compie riferibili più direttamente al concetto di bellezza, di cui, poi, continuarono a occuparsi i seguaci della scuola da lui fondata. La scoperta che una diversa lunghezza delle corde le fa anche vibrare in maniera diversa, producendo così una gradevolezza di suono, induce il pensiero del grande filosofo e matematico alla concezione dell’armonia e associa quest’ultima al bello, che per lui trovava corrispondenza nella pienezza dell’equilibrio degli elementi componenti una cosa, il cui calcolo poteva essere ottenuto matematicamente, quindi in maniera oggettiva, vale a dire indiscutibile, al di là di soggettive opinioni. La simmetria, dunque, era individuabile e calcolabile nelle cose stesse. La medesima considerazione può essere fatta per il cosmo o per particolari elementi presenti nel cosmo.
Vero è che le prime riflessioni che la filosofia fa, più miratamente riferibili al concetto di estetica, possono essere fatte risalire – quando il periodo attribuibile al presocratici è, ormai, tramontato – a Democrito che ci ha lasciato tracce di suoi scritti nei quali si fa esplicito riferimento a concetti quali ritmo, canto, poesia. Democrito, in effetti, attribuisce a queste specifiche operazioni umane la natura di arte, connettendo quest’ultima – precorrendo in qualche modo Aristotele – ai concetti di natura e di mimesis, vale a dire all’osservazione e all’imitazione della natura a opera dell’artista.
Nell’epoca del vigore dialettico dei sofisti, Gorgia, uno dei più noti fra di loro, traduce la parola in maniera elevata tanto da fornirla del potere assoluto di potere essa rappresentare il centro di ogni cosa, intanto egli esclude la possibilità che possa esistere la bellezza intesa come valore oggettivo.
Per Socrate l’arte supera il semplice valore di pura imitatrice della natura e le attribuisce il compito di rivelatrice, di sintetizzatrice e di unificatrice degli aspetti migliori colti dall’artista nella natura stessa.
Anche Platone, già nei Dialoghi, prova a esporre, qualche concetto in materia di estetica, ma lo fa in maniere un po’ contradditorie e non sempre assimilabili o conciliabili. Nell’Ippia Maggiore, tuttavia, egli trova il modo di assemblare meglio le sue idee espresse in precedenza fino a farle apparire disposte in un corpo più sistematico, il cui centro è rappresentato dai concetti di ordine e di armonia di pitagorica memoria. La bellezza, più ancora che all’esperienza sensibile, risulta collegabile, come la verità, d’altra parte, all’idea stessa della bellezza: più l’artista si avvicina all’idea pura più bellezza coglie nel della sua stessa arte, più egli si allontana dalla materia sensibile più cose riesce a cogliere della forma di quanto esiste. Cercare il bello, in sostanza, per Platone finisce per coincidere con la ricerca stessa del bene: bello e bene trovano identificazione l’uno nell’altro e viceversa. Essendo, tuttavia, l’arte imitazione di un’idea preesistente, vede l’arte come un ulteriore allontanamento dalla natura stessa che è già, di per sé, una copia dell’idea: essa, dunque, finisce per identificare se stessa in una copia della copia, essa, pertanto, risulta essere negativa rispetto alla conoscenza del vero in quando ne falsifica le forme ideali. La poesia è anch'essa imitazione del poeta che, a sua volta imita gli dei.
Diversa appare la situazione in Aristotele, per quanto riguarda il concetto di arte, rispetto alla visione già mostrata da Platone. Per Aristotele, infatti, l’arte è esercitabile solo in presenza da parte dell’artista dei requisiti basilari nella fattispecie di conoscenze adeguate, di specifiche competenze e di insopprimibili abilità tecniche. L’artista è colui che è in grado di realizzare una perfetta continuità fra la natura e l’oggetto artistico che della natura stessa è copia, cioè mimesis. Ma il concetto di mimesis, posto dal grande filosofo, tuttavia, sembra oggi contenere delle contraddizioni o, comunque, dei punti oscuri in quanto l’arte non avrebbe una reale corrispondenza con la natura, non ne sarebbe imitazione, ma individuazione nella stessa di aspetti specifici resisi evidenti in maniera diversa rispetto alla diversità delle persone. Secondo questa interpretazione, che qualcuno oggi prefigura, l’arte avrebbe il potere di svelare all’artista ciò che non sempre la natura di sé mostra all’uomo comune, l’artista, poi, ponendosi quasi come medium, mostra al visitatore ciò che egli stesso ha avuto modo di vedere.
Pseudo-Longino, nel periodo compreso tra l’Ellenismo e l’età romana (III sec. a.C. / VII sec. d.C.), nella sua opera "Sul Sublime", mette al centro il tema della “grandezza”. Egli, mentre mostra nostalgia profonda per il modo in cui si conduceva la vita nelle antiche Polis, fa rivivere il potere della fantasia, che era sempre evidente e manifesta nell’età classica. In Seneca, come anche nella scuola stoica, il problema dell’estetica si concentra sul concetti di simmetrica e di decorum. Se si escludono, poi, alcuni frammenti riscontrabili in Orazio e in Vitruvio, il periodo post aristotelico rappresenta un momento di grande silenzio relativo al tema dell’estetica.
Solamente con Plotino fa capolino qualcosa di nuovo in proposito. Egli, in effetti, nelle Enneadi, pone il tema del bello al centro del suo pensiero, affermando che la contemplazione della bellezza trasmessa dai sensi ha il potere di guidare verso la purezza metafisica dell'Uno, essendo la bellezza sensibile l’immagine riflessa proveniente da una bellezza superiore a quella che nel mondo appare. La bellezza, dunque, più che a dati matematici o geometrici, è collegabile a dati etici e conoscitivi individuabili nell’Uno-Tutto, che egli pone a fondamento di tutto il suo sistema di pensiero. Egli, dunque, negando la visione pitagorica, sembra sfiorare quella platonica. L’arte sensibile, per concludere, è la scala che conduce alla bellezza sovrasensibile, tramite essa l’uomo è in grado di entrare in contatto con la bellezza ideale, di cui egli stesso è emanazione. L’idea di bellezza, in tal senso, è racchiudibile nell’insieme armonico di tre movimenti essenziali: il movimento dell’idea; il movimento dell’anima; il movimento della materia.
Nell’opera Corpus Dionysiacum Dionigi Aeropagita, intorno al I sec. d.C., fa coincidere il bello più elevato con il concetto di bene – come già, in un certo senso, era stato per Platone – Egli ritiene che nel mondo sensibile, o mondo reale e visibile, della bellezza reale, coincidente con la visione di Dio, si possono notare solo tracce, rassomiglianze e indizi, l'arte, quindi, può avere solo la funzione di imitatrice del mondo invisibile o del mondo metafisico. Egli riesce in tal modo a sintetizzare classicità greca, patristica e cristianesimo aprendo la strada al pensiero di S. Agostino. Secondo quest’ultimo la bellezza non può essere concepita sul piano soggettivo, collocando essa i suoi fondamenti nei concetti, tipicamente greci, di armonia e di misura.
E’ nel corso del sec. XII che si va definendo una profonda revisione critica rispetto ai giudizi espressi in precedenza relativamente ai concetti di estetica e di bellezza, fino a capovolgere di quest’ultima la visione trasmessa dalla più accreditata tradizione. La bellezza – contraddicendo così la complessa visione del Plotino – è visibile negli strati inferiori rispetto al divino. Due sono le bellezze possibili, ma solo quella interiore, quando riesce a toccare le corde dell’anima attraverso un cammino di conoscenza, riesce anche a riflettersi sui corpi. Lo stesso tipo di manifestazione non sarebbe possibile per la bellezza sensibile.
Che l’uomo sia da ritenere l’essere più perfetto elaborato da quel grande architetto dell’intero universo che è il Creatore è un pensiero scaturito dalla Scuola di Chartres. Ugo, invece, il maggiore degli interpreti della Scuola di S. Vittore, preferisce pensare che la bellezza mondana, pur conservando un proprio modo di essere libero e indipendente, è solo una via capace di introdurre al modo della bellezza superiore, quest’ultima, in particolare, avrebbe il merito di potere avvicinare l’uomo a Dio tramite uno specifico cammino di conoscenza.
Nuove ipotesi sul concetto di estetica vengono elaborate nel corso del secolo XIII dal Grossatesta Egli ritorna, in un certo modo, al concetto pitagorico dell’armonia riscontrabile fra le parti dell’oggetto o del soggetto guardato. Egli vede nella luce la cosa più armonica fra le altre cose esistenti e visibili. L’intero universo, secondo la sua concezione, è costruito sull’impianto strutturale della luce, e quest’ultima è manifestazione diretta di Dio stesso, autore primo dell’universo esistente.
Un contemporaneo del Grossatesta, e francescano come lui, Bonaventura da Bagnoregio, attribuisce un ruolo fondamentale alla teologia, ritenendo la stessa il grado più elevato della conoscenza, a lei, quindi, tutto deve essere riportato. Il suo pensiero estetico è incardinato sul presupposto che il mondo è bello ma è pur sempre un riflesso del mondo divino, e solamente in quest’ultimo il concetto di bellezza allo stato puro va attinto.
I Domenicani, per parte loro, recuperano alcuni concetti aristotelici, e ripongono in Dio la causa prima della bellezza che nel mondo sensibile si manifesta attraverso lo splendore delle forme o della forma. Tommaso d’Aquino pone come base di tutta l’analisi l’equilibrio assoluto tra fede e ragione. Secondo il grande pensatore il bene e il bello sarebbero di per sé indistinti, quasi unica cosa, a scinderli, fino a poterli definire nell’in sé di ciascuno, è compito della ragione, a cui è possibile cogliere il bello insito o connaturato alle cose. Il bene si riferisce alla causa finale ( per soddisfare il desiderio di bene è necessario possedere il bene stesso); il bello, diversamente dal bene, è legato alla facoltà conoscitiva, può essere, dunque, attinto anche attraverso le immagini purché esse manifestino la proporzione dei rapporti esistenti tra fede e ragione.
Dopo le varie disquisizioni, più di carattere teologico, sul concetto di bellezza, combattute fra francescani e domenicani, si giunge all’epoca fatidica dell’Umanesimo e del rinascimento Il secolo XVI è il grande crocevia del tempo, è l’incrocio di tutte le tendenze, è il laboratorio dove tutto viene rimescolato e ridefinito alla luce dell’uomo nuovo, è la grande epoca nella quale l’arte si misura con se stessa e si confronta quanto mai con il concetto di bellezza. E’ questa l’epoca in cui si comincia a imprimere un rinnovato vigore al rapporto con le idee filosofiche e, sia pure lentamente, crescono le tecniche figurative e rappresentative. Gli elementi ispiratori degli artisti sono il rapporto uomo-natura, esperienza-ragione, sacro-mondano. Piero della Francesca crea la prospettiva, il corpo umano diventa l’elemento fondamentale per definire le proporzioni nei diversi campi: architettura, scultura e pittura. Leon Battista Alberti attinge a elementi neoplatonici dando poi materia al suo concetto di bellezza.
A partire dal settecento il concetto di bellezza comincia a rivestirsi dei colori tipici della contemporaneità e compare, per la prima volta, il nome Estetica, che, da questo momento finisce per diventare la definizione di una vera e propria scienza della conoscenza, come appare con evidenza in Baumgarten. E’ quest’ultimo, in effetti, che intorno alla metà del secolo XVIII crea il nome destinato a durare fino a oggi. Egli affida la nobiltà di scienza vera e propria all’estetica e le attribuisce il difficilissimo compito di osservare i momenti della conoscenza sensibile capaci di produrre la visione della perfezione. Insomma, secondo lui, attraverso il conoscere, i sensi possono tendere al bello e toccare con mano quanto si veste di sublime. Egli compie il tentativo di scoprire l’accordo esistente tra pensieri unificati in una cosa che si vede, l’ordine interno della cosa stessa, la continuità di senso tra pensiero e cosa.
Winckelmann conduce, poi, all’estrema esaltazione l’epoca classica dell’arte greca, che per lui rappresenta il momento di più alta sintesi tra la natura e la sua rappresentazione. Per imitare la natura basta imitare i canoni dell’arte greca che meglio di qualunque arte successiva ne ha evidenziato sia l’ordine interno che esterno. Nasce e cresce attraverso di lui la cultura del neoclassicismo, che vede elevare l’arte greca nel punto culminante del concetto stesso di estetica. Nell’arte classica la presenza della diversità di forme non impedisce in nessun modo la visione di una forma perfetta, capace di definire la natura dell’oggettività rispetto a tutte le altre.
Lessing, per parte sua, fa da muro di separazione rispetto alla visione di Winckelmann. Infatti, egli nega la presunta inferiorità della poesia rispetto alle arti plastiche, queste ultime rappresentavano il grande pregio ma anche il grande limite della concezione dell’arte classica, in quanto essa ad esse si fermava, il mondo contemporaneo, invece, è in grado di andare oltre tale limite e di esplorare altre forme dell’esperienza sensibile ed estetica.
Il francese Crousaz, prova a distinguere fra bello e bellezza e finisce per negarne l’affinità. Egli ritiene che il concetto di oggettività è contenibile solo nella prima delle due affermazioni, avendo i caratteri della soggettività la seconda.
Du Bos, intanto, mette in risalto il contrasto fra ragione e sentimento nell’analisi estetica, in quanto la prima impedirebbe al secondo di potersi esprimere nella sua vera natura. Egli recupera, dunque, il valore dei sensi rispetto alla ragione nella rappresentazione artistica ed estetica. In sintesi egli ritiene che il sentimento sia alla base della produzione della bellezza sia nell'arte che nella poesia, negando, quindi, l’importanza delle regole e degli schemi accademici.
Diderot sposta parecchio i cardini della sua visione dell’estetica rispetto ai suoi predecessori e contemporanei, affidandone la natura alla produzione di simboli rappresentativi della realtà, inducendo quasi a pensare a uno specifico linguaggio rappresentativo di forme attraverso segni, veri e propri geroglifici.
In Inghilterra, all’interno del partito dei moderni, Cooper evita di vedere nel morale una via verso il bello, essendo questo già contenuto nel bello stesso, i due concetti, secondo lui, risultano già conciliati tra di loro senza altre artefazioni o congetture. Egli ritiene che l’arte è pura armonia, capace, a sua volta, di contemplare l’armonia universale E’ per questo che egli affida all’artista il compito grande di essere egli il continuatore della creazione iniziata un giorno da Dio.
Per Addison la capacità immaginativa è quella che meglio può fare da elemento di mediazione fra la sensibilità e l’intelletto. Si deduce che il sentimento del piacere, lungi dall’essere un sintomo di confusione dello spirito, è un modo di esprimere il sentimento del gusto. Egli, poi, colloca in due diverse categorie di qualità i piaceri primari e i piaceri secondari: i primi sono legati direttamente alla visione di ciò che è grande e di ciò che è bello in linea di assoluta continuità con la natura, senza alcuna forma o mezzo di intermediazione tra il piacere suscitato e la natura suscitatrice; i secondi sono indiretti, sono filtrati, sono intermediati dall’arte, quindi sono privi di una linea di continuità con la natura, di quest’ultima, quindi, essi risultano essere una semplice imitazione.
G.B. Vico lega la logica dell’estetica alla poetica, che, a sua volta, risulta collegata intimamente alla storia degli eventi nella loro articolata evoluzione che ruoterebbe attraverso tre momenti fondativi: i primi due scaturirebbero dalla logica poetica stessa. Il recupero della visione dell’uomo avviene tramite il recupero di quei primissimi momenti in cui l’uomo stesso appariva intimamente legato al mondo che lo circondava. In sintesi, secondo Vico, solo attraverso la logica poetica si può avere accesso alla vera conoscenza.
Ma il primo grande teorico dell’estetica, colui che in sé raccoglie tutti i pensieri precedenti, specie quelli del ‘700, e li articola in una complessa visione, è E. Kant. Egli è colui che apre i nuovi orizzonti che sfociano poi nell’estetica contemporanea. Kant elabora una poderosa sintesi delle idee, aprendo una grande strada, sulle nuove prospettive in materia, sull’età contemporanea. E’ nella Critica del Giudizio che Kant comincia a cimentarsi in pienezza con il termine "estetica", è in questo ambito che egli approda alla visione di una natura intesa come libera finalità, mettendo in relazione la conoscenza scientifica dei fenomeni (giudizio determinante) con la ragione pratica (giudizio morale), passando attraverso il giudizio riflettente. Quest’ultimo, a sua volta, rivela se stesso attraverso due forme trascendentali che danno luogo rispettivamente al sentimento che si sviluppa alla visione del libero avvicendarsi della natura (giudizio teleologico), e la sensazione profonda di piacere o dispiacere che la natura riesce a suscitare su chi la osserva (giudizio estetico). Il giudizio secondo il gusto nei confronti di quanto appare bello è da ritenere libero, svincolato da regole, quindi di carattere puramente soggettivo. Si hanno, poi, almeno due aspetti della bellezza, quella libera coincide con l’espressione di un giudizio estetico puro; quella aderente coincide con l’idea del piacere connaturata con un'idea di scopo. Nel secondo dei due casi si realizza una coincidenza assoluta tra le due forme del giudizio, quello teleologico e quello estetico. Secondo il grande filosofo, inoltre, il concetto di sublime coincide con il sentimento dell’infinitamente grande capace di mettere di fronte a un sentimento misto di dispiacere del non riuscire a contenere in noi l’infinitamente grande, ma anche del piacere di sapere la nostra destinazione verso il sovrasensibile. A definire le regole dell’arte è il genio, vale a dire un essere umano fornito dalla natura di un particolare talento interpretativo dell’esistente, del quale è in grado di mettere in evidenza le idee estetiche. L’arte, insomma, secondo Kant, coincide con la capacità di assimilazione della natura, in modo tale che l’opera dell’uomo possa apparire come opera della natura medesima, grazie ad una operazione di prospettiva contemplativa.
Lo stesso Goethe, relativamente all’arte ha scritto parecchio, senza riuscire, tuttavia, a concludere il suo pensiero sull’estetica in una visione sistematica. Evidente, però, appare il suo insistente fare coincidere l’attività poetica con la vita stessa, che egli vede come l’insieme inscindibile di forma e movimento, e la natura, inquadrati in una visione totalizzante, contenente l’unità del tutto, coincidente con la conoscenza stessa. Dal tutto si può evincere, o perlomeno dedurre, che l’attività dell’artista trova la sua stretta relazione con l’attività del conoscere, che mentre afferma l’esistenza di un mondo oltre il sé, lo mette, nel contempo, in relazione con lo stesso sé. L'arte, mentre non imita la natura si pone essa stessa come altra natura fornita dei caratteri più misteriosi ancora della natura che essa indaga per conoscere e rappresentare tramite un linguaggio simbolico capace di sintetizzare il particolare nell’universale.
Schiller, per alcuni aspetti, trova qualche coincidenza con il concetto di forma già espresso da Goethe che già si muoveva a mezzo tra il concetto puramente illuministico e quello romantico, apparendo quest’ultimo meno irrigidito dalle regole precise della ragione. Attraverso lui si va definendo un superamento della realtà visibile senza sfociare, tuttavia, verso visioni del tutto indefinibili e imprecisabili, egli, in effetti, compie il tentativo dell’incontro con l’ideale, riscontrando tale modo del concepire l’arte nella rappresentazione tragica nella quale la morale meglio riesce a trovare la sua elevazione dalle semplici leggi naturali.
Un grande elemento di rottura rispetto alla visione del concetto di estetica si ha con il nascere del romanticismo tedesco, tutto fondato sull’esaltazione del sentimento e della libertà, capace di rappresentare il fondamento della capacità creativa dell’artista, al punto tale che egli ha il potere di tradurre perfino il sogno in realtà e farlo corrispondere con i canoni della verità. Lo spirito libero si va così sostituendo alla costrizione delle regole donando sviluppo e vigore a una più moderna concezione del bello. La modernità dell’arte romantica consiste nel fatto che essa deve essere in grado di rappresentare il proprio tempo e sapervisi riconoscere. L’autore è in effetti parte egli stesso dell’organizzazione sociale in cui si ritrova a vivere. Contraddicendo i canoni e i fini dell’arte classica, l’artista si attribuisce un compito morale, evitando, al contrario, di limitarsi a rappresentare il bello per il bello, mirando, invece, al vero, a ciò che la storia stessa gli detta, giorno per giorno, nel suo divenire. Il principio del vero, nel campo più specificamente letterario, trova la sua coincidenza nella corrente più prettamente lirica, più soggettiva, più interiore, e in quella realistica, di carattere, invece, oggettivo, più rivolto al sociale nelle sue diverse forme di espressione. Il concetto dell’arte romantica contraddice che essa possa essere solo la pura e semplice espressione del genio. Vengono fuori così, attraverso le opere, le contraddizioni del tempo, le tensioni sia dell’anima che del corpo, al di là, dunque, di una semplice imitazione del bello contenuto in natura, considerato immutabile nel tempo, privo di divenire, quindi privo di vita. Si evince dall’insieme che l’arte romantica, negatrice di quanto del passato aveva rappresentato l’arte neoclassica, si distanzia, fino a negarne i presupposti, sia dalla statica concezione del verosimile che del bello ideale, immutabile in sé, quindi privo di anima vivente dell’artista che vede e interpreta un mondo delle cose che muta ogni volta davanti ai suoi stessi occhi. Anche le realtà umili finiscono per fare il loro ingresso nella rappresentazione artistica, a farla da protagonisti non sono più solamente dei ed eroi, ne scaturisce quindi una poetica del dire e del descrivere del tutto nuova, rivoluzionaria sotto molti aspetti, capace di aprire definitivamente le porte a un popolo in cammino e ai modi e alle forme dell’arte contemporanea.
In conclusione, i potenziali lettori di questo brevissimo saggio mi consentano l’azzardo di esprimere una mia personale teoria sul concetto di bellezza o di bello, dopo le tante già suggerite dalla storia ultramillenaria del pensiero umano: chi non si vede non vede, l’estremo livello della bellezza, il suo grado più in alto è nella capacità di “vedersi”. Anche Dante Alighieri ebbe la visione dell’estremo bagliore di Dio, quando finalmente “si vide” e quel bagliore vide riflesso in se stesso. La bellezza, nelle sue forme e nei sentimenti che essa è capace di indurre allo spirito umano, si manifesta in maniera, direi automatica, negli spiriti liberi, in coloro che, avendo la visione intera di sé, hanno il potere e il privilegio, non a tutti consentito, di vedere e vedere oltre le cose, di vedere dentro alle cose e coglierne l’anima recondita, fosse pure l’anima di una singola, foglia, sublime nella sua fragilità, colpita dal sibilo arrogante di un impetuoso vento d’autunno.
L’estetica, intesa come trattazione di ciò che è bello, in filosofia ha un’origine recente. Di essa, con la definizione con cui la si identifica oggi, si hanno le prime tracce a partire dal secolo dell’illuminismo, vale a dire dal secolo XVIII. Ciò non toglie che il concetto di bello, come quello di rappresentazione artistica sia stato trascurato e, quindi, variamente affrontato e discusso nel tempo, a partire dai primordi del pensiero logico. Fatto sta che la bellezza è un evento, talmente insito nelle cose, in tutto quanto esiste, che mai è apparsa essere estranea alla visione sia della mente che dello spirito degli individui che hanno abitato e abitano questo globo di vita, che è la terra, sospeso come per evento magico e per millenni inspiegato, nello spazio dell’universo sconfinato. Parlare di bellezza è un po’ come parlare di tutto: in ogni cosa del mondo animale, come di quello vegetale e minerale, in ogni cosa che riguardi l’uomo e la sua personale esperienza di vita, possono essere individuate tracce di quello che può essere definito equilibrato, oppure armonioso, oppure talmente identico a se stesso da non potere essere assomigliato a nessuna altra cosa, oppure sublime per tutto ciò che trasmette in gioia del vedere e del godere. Bella può essere una persona, o parti e aspetti della stessa, bello può essere un animale, come lo può essere una montagna, un fiume o un mare, un cielo stellato, un albero o un’opera compiuta dall’uomo, capace, come egli è, di cogliere nelle cose, in tutte le cose, quello che di speciale, di straordinario, esse hanno il potere di comunicare; bello può essere un sentimento, un’emozione, una percezione, un pensiero, un sogno. L’estetica, dunque, altro non è che quella branca della filosofia capace di cogliere e descrivere le motivazioni per cui ciò che viene definito bello è tale, essa ha il potere di trasformare la bellezza in pensiero logico e poi in parole e di guidare – chi filosofo, artista o poeta non è – a cogliere ciò che, non a tutti appare immediatamente visibile, mimetizzandosi la bellezza nel tutto, quasi a proteggere se stessa da contaminazioni sempre in agguato. Sembrerebbe un paradosso, ma la bellezza vive nel nascondimento, non si mostra e non si pavoneggia, attende silenziosa chi la cerca e la trova, accoglie chi impara a distinguerla e ad amarla e in cambio gli dà la gioia profonda del diretto contatto con il sublime, perché la bellezza, nella sua assoluta unicità è il sublime. Vedremo nel prosieguo se questo sublime che è la bellezza oltre che colto possa essere rappresentato, e se può essere colto e rappresentato attraverso quali modi questo possa accadere.
Se i presocratici, all’origine del pensiero filosofico, si fossero occupati del concetto di bellezza, sia pure non tradotto nella parola moderna Estetica, è difficile dirlo, poiché di loro, purtroppo conosciamo solo pochissimi frammenti della loro intera produzione, e quel poco che sappiamo ci arriva per via indiretta, per voce di Socrate e di Platone che di qualcuno fra loro avevano avuto conoscenza o informazioni più o meno attendibili.
Attraverso Platone, ad esempio, e, dopo di lui, attraverso suoi discepoli, veniamo a conoscenza del concetto di armonia che aveva elaborato Pitagora intorno al sec. VI a.C. A quest’ultimo, in effetti, è possibile fare risalire le prime riflessioni che il pensiero filosofico compie riferibili più direttamente al concetto di bellezza, di cui, poi, continuarono a occuparsi i seguaci della scuola da lui fondata. La scoperta che una diversa lunghezza delle corde le fa anche vibrare in maniera diversa, producendo così una gradevolezza di suono, induce il pensiero del grande filosofo e matematico alla concezione dell’armonia e associa quest’ultima al bello, che per lui trovava corrispondenza nella pienezza dell’equilibrio degli elementi componenti una cosa, il cui calcolo poteva essere ottenuto matematicamente, quindi in maniera oggettiva, vale a dire indiscutibile, al di là di soggettive opinioni. La simmetria, dunque, era individuabile e calcolabile nelle cose stesse. La medesima considerazione può essere fatta per il cosmo o per particolari elementi presenti nel cosmo.
Vero è che le prime riflessioni che la filosofia fa, più miratamente riferibili al concetto di estetica, possono essere fatte risalire – quando il periodo attribuibile al presocratici è, ormai, tramontato – a Democrito che ci ha lasciato tracce di suoi scritti nei quali si fa esplicito riferimento a concetti quali ritmo, canto, poesia. Democrito, in effetti, attribuisce a queste specifiche operazioni umane la natura di arte, connettendo quest’ultima – precorrendo in qualche modo Aristotele – ai concetti di natura e di mimesis, vale a dire all’osservazione e all’imitazione della natura a opera dell’artista.
Nell’epoca del vigore dialettico dei sofisti, Gorgia, uno dei più noti fra di loro, traduce la parola in maniera elevata tanto da fornirla del potere assoluto di potere essa rappresentare il centro di ogni cosa, intanto egli esclude la possibilità che possa esistere la bellezza intesa come valore oggettivo.
Per Socrate l’arte supera il semplice valore di pura imitatrice della natura e le attribuisce il compito di rivelatrice, di sintetizzatrice e di unificatrice degli aspetti migliori colti dall’artista nella natura stessa.
Anche Platone, già nei Dialoghi, prova a esporre, qualche concetto in materia di estetica, ma lo fa in maniere un po’ contradditorie e non sempre assimilabili o conciliabili. Nell’Ippia Maggiore, tuttavia, egli trova il modo di assemblare meglio le sue idee espresse in precedenza fino a farle apparire disposte in un corpo più sistematico, il cui centro è rappresentato dai concetti di ordine e di armonia di pitagorica memoria. La bellezza, più ancora che all’esperienza sensibile, risulta collegabile, come la verità, d’altra parte, all’idea stessa della bellezza: più l’artista si avvicina all’idea pura più bellezza coglie nel della sua stessa arte, più egli si allontana dalla materia sensibile più cose riesce a cogliere della forma di quanto esiste. Cercare il bello, in sostanza, per Platone finisce per coincidere con la ricerca stessa del bene: bello e bene trovano identificazione l’uno nell’altro e viceversa. Essendo, tuttavia, l’arte imitazione di un’idea preesistente, vede l’arte come un ulteriore allontanamento dalla natura stessa che è già, di per sé, una copia dell’idea: essa, dunque, finisce per identificare se stessa in una copia della copia, essa, pertanto, risulta essere negativa rispetto alla conoscenza del vero in quando ne falsifica le forme ideali. La poesia è anch'essa imitazione del poeta che, a sua volta imita gli dei.
Diversa appare la situazione in Aristotele, per quanto riguarda il concetto di arte, rispetto alla visione già mostrata da Platone. Per Aristotele, infatti, l’arte è esercitabile solo in presenza da parte dell’artista dei requisiti basilari nella fattispecie di conoscenze adeguate, di specifiche competenze e di insopprimibili abilità tecniche. L’artista è colui che è in grado di realizzare una perfetta continuità fra la natura e l’oggetto artistico che della natura stessa è copia, cioè mimesis. Ma il concetto di mimesis, posto dal grande filosofo, tuttavia, sembra oggi contenere delle contraddizioni o, comunque, dei punti oscuri in quanto l’arte non avrebbe una reale corrispondenza con la natura, non ne sarebbe imitazione, ma individuazione nella stessa di aspetti specifici resisi evidenti in maniera diversa rispetto alla diversità delle persone. Secondo questa interpretazione, che qualcuno oggi prefigura, l’arte avrebbe il potere di svelare all’artista ciò che non sempre la natura di sé mostra all’uomo comune, l’artista, poi, ponendosi quasi come medium, mostra al visitatore ciò che egli stesso ha avuto modo di vedere.
Pseudo-Longino, nel periodo compreso tra l’Ellenismo e l’età romana (III sec. a.C. / VII sec. d.C.), nella sua opera "Sul Sublime", mette al centro il tema della “grandezza”. Egli, mentre mostra nostalgia profonda per il modo in cui si conduceva la vita nelle antiche Polis, fa rivivere il potere della fantasia, che era sempre evidente e manifesta nell’età classica. In Seneca, come anche nella scuola stoica, il problema dell’estetica si concentra sul concetti di simmetrica e di decorum. Se si escludono, poi, alcuni frammenti riscontrabili in Orazio e in Vitruvio, il periodo post aristotelico rappresenta un momento di grande silenzio relativo al tema dell’estetica.
Solamente con Plotino fa capolino qualcosa di nuovo in proposito. Egli, in effetti, nelle Enneadi, pone il tema del bello al centro del suo pensiero, affermando che la contemplazione della bellezza trasmessa dai sensi ha il potere di guidare verso la purezza metafisica dell'Uno, essendo la bellezza sensibile l’immagine riflessa proveniente da una bellezza superiore a quella che nel mondo appare. La bellezza, dunque, più che a dati matematici o geometrici, è collegabile a dati etici e conoscitivi individuabili nell’Uno-Tutto, che egli pone a fondamento di tutto il suo sistema di pensiero. Egli, dunque, negando la visione pitagorica, sembra sfiorare quella platonica. L’arte sensibile, per concludere, è la scala che conduce alla bellezza sovrasensibile, tramite essa l’uomo è in grado di entrare in contatto con la bellezza ideale, di cui egli stesso è emanazione. L’idea di bellezza, in tal senso, è racchiudibile nell’insieme armonico di tre movimenti essenziali: il movimento dell’idea; il movimento dell’anima; il movimento della materia.
Nell’opera Corpus Dionysiacum Dionigi Aeropagita, intorno al I sec. d.C., fa coincidere il bello più elevato con il concetto di bene – come già, in un certo senso, era stato per Platone – Egli ritiene che nel mondo sensibile, o mondo reale e visibile, della bellezza reale, coincidente con la visione di Dio, si possono notare solo tracce, rassomiglianze e indizi, l'arte, quindi, può avere solo la funzione di imitatrice del mondo invisibile o del mondo metafisico. Egli riesce in tal modo a sintetizzare classicità greca, patristica e cristianesimo aprendo la strada al pensiero di S. Agostino. Secondo quest’ultimo la bellezza non può essere concepita sul piano soggettivo, collocando essa i suoi fondamenti nei concetti, tipicamente greci, di armonia e di misura.
E’ nel corso del sec. XII che si va definendo una profonda revisione critica rispetto ai giudizi espressi in precedenza relativamente ai concetti di estetica e di bellezza, fino a capovolgere di quest’ultima la visione trasmessa dalla più accreditata tradizione. La bellezza – contraddicendo così la complessa visione del Plotino – è visibile negli strati inferiori rispetto al divino. Due sono le bellezze possibili, ma solo quella interiore, quando riesce a toccare le corde dell’anima attraverso un cammino di conoscenza, riesce anche a riflettersi sui corpi. Lo stesso tipo di manifestazione non sarebbe possibile per la bellezza sensibile.
Che l’uomo sia da ritenere l’essere più perfetto elaborato da quel grande architetto dell’intero universo che è il Creatore è un pensiero scaturito dalla Scuola di Chartres. Ugo, invece, il maggiore degli interpreti della Scuola di S. Vittore, preferisce pensare che la bellezza mondana, pur conservando un proprio modo di essere libero e indipendente, è solo una via capace di introdurre al modo della bellezza superiore, quest’ultima, in particolare, avrebbe il merito di potere avvicinare l’uomo a Dio tramite uno specifico cammino di conoscenza.
Nuove ipotesi sul concetto di estetica vengono elaborate nel corso del secolo XIII dal Grossatesta Egli ritorna, in un certo modo, al concetto pitagorico dell’armonia riscontrabile fra le parti dell’oggetto o del soggetto guardato. Egli vede nella luce la cosa più armonica fra le altre cose esistenti e visibili. L’intero universo, secondo la sua concezione, è costruito sull’impianto strutturale della luce, e quest’ultima è manifestazione diretta di Dio stesso, autore primo dell’universo esistente.
Un contemporaneo del Grossatesta, e francescano come lui, Bonaventura da Bagnoregio, attribuisce un ruolo fondamentale alla teologia, ritenendo la stessa il grado più elevato della conoscenza, a lei, quindi, tutto deve essere riportato. Il suo pensiero estetico è incardinato sul presupposto che il mondo è bello ma è pur sempre un riflesso del mondo divino, e solamente in quest’ultimo il concetto di bellezza allo stato puro va attinto.
I Domenicani, per parte loro, recuperano alcuni concetti aristotelici, e ripongono in Dio la causa prima della bellezza che nel mondo sensibile si manifesta attraverso lo splendore delle forme o della forma. Tommaso d’Aquino pone come base di tutta l’analisi l’equilibrio assoluto tra fede e ragione. Secondo il grande pensatore il bene e il bello sarebbero di per sé indistinti, quasi unica cosa, a scinderli, fino a poterli definire nell’in sé di ciascuno, è compito della ragione, a cui è possibile cogliere il bello insito o connaturato alle cose. Il bene si riferisce alla causa finale ( per soddisfare il desiderio di bene è necessario possedere il bene stesso); il bello, diversamente dal bene, è legato alla facoltà conoscitiva, può essere, dunque, attinto anche attraverso le immagini purché esse manifestino la proporzione dei rapporti esistenti tra fede e ragione.
Dopo le varie disquisizioni, più di carattere teologico, sul concetto di bellezza, combattute fra francescani e domenicani, si giunge all’epoca fatidica dell’Umanesimo e del rinascimento Il secolo XVI è il grande crocevia del tempo, è l’incrocio di tutte le tendenze, è il laboratorio dove tutto viene rimescolato e ridefinito alla luce dell’uomo nuovo, è la grande epoca nella quale l’arte si misura con se stessa e si confronta quanto mai con il concetto di bellezza. E’ questa l’epoca in cui si comincia a imprimere un rinnovato vigore al rapporto con le idee filosofiche e, sia pure lentamente, crescono le tecniche figurative e rappresentative. Gli elementi ispiratori degli artisti sono il rapporto uomo-natura, esperienza-ragione, sacro-mondano. Piero della Francesca crea la prospettiva, il corpo umano diventa l’elemento fondamentale per definire le proporzioni nei diversi campi: architettura, scultura e pittura. Leon Battista Alberti attinge a elementi neoplatonici dando poi materia al suo concetto di bellezza.
A partire dal settecento il concetto di bellezza comincia a rivestirsi dei colori tipici della contemporaneità e compare, per la prima volta, il nome Estetica, che, da questo momento finisce per diventare la definizione di una vera e propria scienza della conoscenza, come appare con evidenza in Baumgarten. E’ quest’ultimo, in effetti, che intorno alla metà del secolo XVIII crea il nome destinato a durare fino a oggi. Egli affida la nobiltà di scienza vera e propria all’estetica e le attribuisce il difficilissimo compito di osservare i momenti della conoscenza sensibile capaci di produrre la visione della perfezione. Insomma, secondo lui, attraverso il conoscere, i sensi possono tendere al bello e toccare con mano quanto si veste di sublime. Egli compie il tentativo di scoprire l’accordo esistente tra pensieri unificati in una cosa che si vede, l’ordine interno della cosa stessa, la continuità di senso tra pensiero e cosa.
Winckelmann conduce, poi, all’estrema esaltazione l’epoca classica dell’arte greca, che per lui rappresenta il momento di più alta sintesi tra la natura e la sua rappresentazione. Per imitare la natura basta imitare i canoni dell’arte greca che meglio di qualunque arte successiva ne ha evidenziato sia l’ordine interno che esterno. Nasce e cresce attraverso di lui la cultura del neoclassicismo, che vede elevare l’arte greca nel punto culminante del concetto stesso di estetica. Nell’arte classica la presenza della diversità di forme non impedisce in nessun modo la visione di una forma perfetta, capace di definire la natura dell’oggettività rispetto a tutte le altre.
Lessing, per parte sua, fa da muro di separazione rispetto alla visione di Winckelmann. Infatti, egli nega la presunta inferiorità della poesia rispetto alle arti plastiche, queste ultime rappresentavano il grande pregio ma anche il grande limite della concezione dell’arte classica, in quanto essa ad esse si fermava, il mondo contemporaneo, invece, è in grado di andare oltre tale limite e di esplorare altre forme dell’esperienza sensibile ed estetica.
Il francese Crousaz, prova a distinguere fra bello e bellezza e finisce per negarne l’affinità. Egli ritiene che il concetto di oggettività è contenibile solo nella prima delle due affermazioni, avendo i caratteri della soggettività la seconda.
Du Bos, intanto, mette in risalto il contrasto fra ragione e sentimento nell’analisi estetica, in quanto la prima impedirebbe al secondo di potersi esprimere nella sua vera natura. Egli recupera, dunque, il valore dei sensi rispetto alla ragione nella rappresentazione artistica ed estetica. In sintesi egli ritiene che il sentimento sia alla base della produzione della bellezza sia nell'arte che nella poesia, negando, quindi, l’importanza delle regole e degli schemi accademici.
Diderot sposta parecchio i cardini della sua visione dell’estetica rispetto ai suoi predecessori e contemporanei, affidandone la natura alla produzione di simboli rappresentativi della realtà, inducendo quasi a pensare a uno specifico linguaggio rappresentativo di forme attraverso segni, veri e propri geroglifici.
In Inghilterra, all’interno del partito dei moderni, Cooper evita di vedere nel morale una via verso il bello, essendo questo già contenuto nel bello stesso, i due concetti, secondo lui, risultano già conciliati tra di loro senza altre artefazioni o congetture. Egli ritiene che l’arte è pura armonia, capace, a sua volta, di contemplare l’armonia universale E’ per questo che egli affida all’artista il compito grande di essere egli il continuatore della creazione iniziata un giorno da Dio.
Per Addison la capacità immaginativa è quella che meglio può fare da elemento di mediazione fra la sensibilità e l’intelletto. Si deduce che il sentimento del piacere, lungi dall’essere un sintomo di confusione dello spirito, è un modo di esprimere il sentimento del gusto. Egli, poi, colloca in due diverse categorie di qualità i piaceri primari e i piaceri secondari: i primi sono legati direttamente alla visione di ciò che è grande e di ciò che è bello in linea di assoluta continuità con la natura, senza alcuna forma o mezzo di intermediazione tra il piacere suscitato e la natura suscitatrice; i secondi sono indiretti, sono filtrati, sono intermediati dall’arte, quindi sono privi di una linea di continuità con la natura, di quest’ultima, quindi, essi risultano essere una semplice imitazione.
G.B. Vico lega la logica dell’estetica alla poetica, che, a sua volta, risulta collegata intimamente alla storia degli eventi nella loro articolata evoluzione che ruoterebbe attraverso tre momenti fondativi: i primi due scaturirebbero dalla logica poetica stessa. Il recupero della visione dell’uomo avviene tramite il recupero di quei primissimi momenti in cui l’uomo stesso appariva intimamente legato al mondo che lo circondava. In sintesi, secondo Vico, solo attraverso la logica poetica si può avere accesso alla vera conoscenza.
Ma il primo grande teorico dell’estetica, colui che in sé raccoglie tutti i pensieri precedenti, specie quelli del ‘700, e li articola in una complessa visione, è E. Kant. Egli è colui che apre i nuovi orizzonti che sfociano poi nell’estetica contemporanea. Kant elabora una poderosa sintesi delle idee, aprendo una grande strada, sulle nuove prospettive in materia, sull’età contemporanea. E’ nella Critica del Giudizio che Kant comincia a cimentarsi in pienezza con il termine "estetica", è in questo ambito che egli approda alla visione di una natura intesa come libera finalità, mettendo in relazione la conoscenza scientifica dei fenomeni (giudizio determinante) con la ragione pratica (giudizio morale), passando attraverso il giudizio riflettente. Quest’ultimo, a sua volta, rivela se stesso attraverso due forme trascendentali che danno luogo rispettivamente al sentimento che si sviluppa alla visione del libero avvicendarsi della natura (giudizio teleologico), e la sensazione profonda di piacere o dispiacere che la natura riesce a suscitare su chi la osserva (giudizio estetico). Il giudizio secondo il gusto nei confronti di quanto appare bello è da ritenere libero, svincolato da regole, quindi di carattere puramente soggettivo. Si hanno, poi, almeno due aspetti della bellezza, quella libera coincide con l’espressione di un giudizio estetico puro; quella aderente coincide con l’idea del piacere connaturata con un'idea di scopo. Nel secondo dei due casi si realizza una coincidenza assoluta tra le due forme del giudizio, quello teleologico e quello estetico. Secondo il grande filosofo, inoltre, il concetto di sublime coincide con il sentimento dell’infinitamente grande capace di mettere di fronte a un sentimento misto di dispiacere del non riuscire a contenere in noi l’infinitamente grande, ma anche del piacere di sapere la nostra destinazione verso il sovrasensibile. A definire le regole dell’arte è il genio, vale a dire un essere umano fornito dalla natura di un particolare talento interpretativo dell’esistente, del quale è in grado di mettere in evidenza le idee estetiche. L’arte, insomma, secondo Kant, coincide con la capacità di assimilazione della natura, in modo tale che l’opera dell’uomo possa apparire come opera della natura medesima, grazie ad una operazione di prospettiva contemplativa.
Lo stesso Goethe, relativamente all’arte ha scritto parecchio, senza riuscire, tuttavia, a concludere il suo pensiero sull’estetica in una visione sistematica. Evidente, però, appare il suo insistente fare coincidere l’attività poetica con la vita stessa, che egli vede come l’insieme inscindibile di forma e movimento, e la natura, inquadrati in una visione totalizzante, contenente l’unità del tutto, coincidente con la conoscenza stessa. Dal tutto si può evincere, o perlomeno dedurre, che l’attività dell’artista trova la sua stretta relazione con l’attività del conoscere, che mentre afferma l’esistenza di un mondo oltre il sé, lo mette, nel contempo, in relazione con lo stesso sé. L'arte, mentre non imita la natura si pone essa stessa come altra natura fornita dei caratteri più misteriosi ancora della natura che essa indaga per conoscere e rappresentare tramite un linguaggio simbolico capace di sintetizzare il particolare nell’universale.
Schiller, per alcuni aspetti, trova qualche coincidenza con il concetto di forma già espresso da Goethe che già si muoveva a mezzo tra il concetto puramente illuministico e quello romantico, apparendo quest’ultimo meno irrigidito dalle regole precise della ragione. Attraverso lui si va definendo un superamento della realtà visibile senza sfociare, tuttavia, verso visioni del tutto indefinibili e imprecisabili, egli, in effetti, compie il tentativo dell’incontro con l’ideale, riscontrando tale modo del concepire l’arte nella rappresentazione tragica nella quale la morale meglio riesce a trovare la sua elevazione dalle semplici leggi naturali.
Un grande elemento di rottura rispetto alla visione del concetto di estetica si ha con il nascere del romanticismo tedesco, tutto fondato sull’esaltazione del sentimento e della libertà, capace di rappresentare il fondamento della capacità creativa dell’artista, al punto tale che egli ha il potere di tradurre perfino il sogno in realtà e farlo corrispondere con i canoni della verità. Lo spirito libero si va così sostituendo alla costrizione delle regole donando sviluppo e vigore a una più moderna concezione del bello. La modernità dell’arte romantica consiste nel fatto che essa deve essere in grado di rappresentare il proprio tempo e sapervisi riconoscere. L’autore è in effetti parte egli stesso dell’organizzazione sociale in cui si ritrova a vivere. Contraddicendo i canoni e i fini dell’arte classica, l’artista si attribuisce un compito morale, evitando, al contrario, di limitarsi a rappresentare il bello per il bello, mirando, invece, al vero, a ciò che la storia stessa gli detta, giorno per giorno, nel suo divenire. Il principio del vero, nel campo più specificamente letterario, trova la sua coincidenza nella corrente più prettamente lirica, più soggettiva, più interiore, e in quella realistica, di carattere, invece, oggettivo, più rivolto al sociale nelle sue diverse forme di espressione. Il concetto dell’arte romantica contraddice che essa possa essere solo la pura e semplice espressione del genio. Vengono fuori così, attraverso le opere, le contraddizioni del tempo, le tensioni sia dell’anima che del corpo, al di là, dunque, di una semplice imitazione del bello contenuto in natura, considerato immutabile nel tempo, privo di divenire, quindi privo di vita. Si evince dall’insieme che l’arte romantica, negatrice di quanto del passato aveva rappresentato l’arte neoclassica, si distanzia, fino a negarne i presupposti, sia dalla statica concezione del verosimile che del bello ideale, immutabile in sé, quindi privo di anima vivente dell’artista che vede e interpreta un mondo delle cose che muta ogni volta davanti ai suoi stessi occhi. Anche le realtà umili finiscono per fare il loro ingresso nella rappresentazione artistica, a farla da protagonisti non sono più solamente dei ed eroi, ne scaturisce quindi una poetica del dire e del descrivere del tutto nuova, rivoluzionaria sotto molti aspetti, capace di aprire definitivamente le porte a un popolo in cammino e ai modi e alle forme dell’arte contemporanea.
In conclusione, i potenziali lettori di questo brevissimo saggio mi consentano l’azzardo di esprimere una mia personale teoria sul concetto di bellezza o di bello, dopo le tante già suggerite dalla storia ultramillenaria del pensiero umano: chi non si vede non vede, l’estremo livello della bellezza, il suo grado più in alto è nella capacità di “vedersi”. Anche Dante Alighieri ebbe la visione dell’estremo bagliore di Dio, quando finalmente “si vide” e quel bagliore vide riflesso in se stesso. La bellezza, nelle sue forme e nei sentimenti che essa è capace di indurre allo spirito umano, si manifesta in maniera, direi automatica, negli spiriti liberi, in coloro che, avendo la visione intera di sé, hanno il potere e il privilegio, non a tutti consentito, di vedere e vedere oltre le cose, di vedere dentro alle cose e coglierne l’anima recondita, fosse pure l’anima di una singola, foglia, sublime nella sua fragilità, colpita dal sibilo arrogante di un impetuoso vento d’autunno.