Quando Luca De Crescenzo mi disse che poteva esserci una occasione di riflessione comune sulle opere di Antonio Pellegrino è come se avessi potuto condividere una esigenza e quasi un debito mio personale. Pur non incontrandoci direttamente, caro Antonio, io sapevo bene del tuo impegno. Tu stesso ti eri preoccupato, in alcune occasioni, di farmi conoscere i tuoi lavori. E io sapevo che nella nostra realtà tu, come altri amici, non rinunci a quella creatività e a quella ricerca contestuale alla verità della bellezza. La poesia per me è questo, è bellezza. Sono questi amici, e tu primo fra questi, che confermano la ragione di non rinuncia a ciò che qualifica la vita, la nostra vita. Quindi era una interlocuzione che continuava, che si manteneva negli anni. Noi abbiamo bisogno di saperci impegnati, ognuno per la sua parte. Noi dobbiamo rilanciare la partita del pensiero, la partita della poesia, la partita della moralità. Negare la cultura e negare la bellezza coincide con l’immoralità, quindi con la dequalificazione umana e anche sociale. Chi lavora per la crescita culturale è degno del massimo riconoscimento e del conforto. Antonio ha scritto dei versi, delle poesie, dei racconti che hanno, credo, un elemento che li unifica: il proprio “sigillo esistenziale”, la propria autenticità, quella che non ti può dare nessuno, né una scuola né una chiesa, né un partito, ma ti può essere data invece dalla riflessione su quello che sei, nel tempo in cui sei, nei boschi dove vai, nelle foglie che vedi cadere e che vedi rinascere. Dunque “sigillo esistenziale” come conoscenza e ricerca, soprattutto, di ciò che conta, dei significati nei quali si ritrova l’infinito. A me hanno colpito sempre le poesie di Antonio. Le poesie, quando le leggiamo, quelle che abbiamo ascoltato prima, quelle che leggeremo a casa sono poesie in cui si descrivono segmenti di mondo, comparti della natura, luoghi, e sono luoghi veri. Mentre, il più delle volte, tutti noi, frequentiamo i non-luoghi, i luoghi imposti, i luoghi dove dobbiamo necessariamente andare. Quelle descrizioni sono descrizioni di luoghi veri perché luoghi riportati nella poesia con il ricordo, con il sentimento e con la immissione di quegli stessi luoghi nella grande dimensione della vita universale. Quindi nessun luogo è un segmento staccato dal resto. E la riflessione perciò stesso non è la riflessione settoriale, quello sprazzo che si apre e si chiude, non è l’enunciazione di quel bisogno di vita universale entro la quale, la mia vita, la mia singola vita, il mio esistere, il mio essere – tema ricorrente nella poesia di Antonio – acquista una qualità esistenziale liberata dalla contingenza e dalla banalità. Io così le ho lette. Poi sta qui Antonio e io posso essere smentito in una maniera clamorosa. Ho letto poi queste poesie come espressione di una paura, una paura consistente in quel rischio che è immanente innanzi a noi – oggi più che mai – di essere schiacciati dalle cose. E in quei versi, lo diceva prima Ester, c’è quasi un prendere la distanza dalle cose, direbbero i filosofi dalla cosalità, ma per non essere schiacciati dalle cose, per non essere assoggettati a una dimensione pratico-inerte (altra espressione della filosofia) cioè qualcosa di pesante dentro cui la coscienza, e cioè il bisogno di libertà e di spiritualità viene ad essere una variabile dipendente destinata alla sconfitta. Prendere l distanze dalle cose, descriverle, parlarne, metterle in versi per recuperare la unitarietà del tutto e per mettere al primo posto non le cose che ti schiacciano ma la coscienza che vede le cose e sa che quelle cose sono cose di fronte alle quali c’è il tuo essere “irriducibile a cosa”. Parli delle cose per non stare sottoposto alle cose. E’ una esigenza di libertà, è la bellezza. Per me la poesia, nella sua accezione più forte, è l’espressione della ricerca della libertà, ma non di una libertà generica, non di una libertà da don Chisciotte, ma la libertà come interpretazione del mondo. E’ un tema complesso. Presso i romantici alcuni grandi autori come Novalis, come F. Holderlin dicevano che non la filosofia è lo strumento principe della conoscenza, dell’essenza dell’universo, ma la poesia. Potrebbe apparire una sorta di rivendicazione corporativa del poeta contro il filosofo, ma non è così. La verità è che con la intuizione poetica tu vai a cogliere una essenza che con nessun percorso conoscitivo, con nessuna formula scientifica, con nessuna dimostrazione matematica potrai mai attingere. Poi certo deve venire la dimostrazione matematica, deve venire l’esperimento sulla natura, ma se tu parli di te stesso, come essere che vive in questo universo, come atomo – tante volte Antonio immagina anche questa vita universale, questo confliggere di atomi, ma non gli atomi democritei, che peraltro non erano gli atomi meccanicistici banalmente considerati, atomi come schegge di una vita la quale è armonia e non separazione. Dunque la poesia con la sua intuizione e con la sua coniugazione di bellezza e di dialettica inventiva, creatrice, riesce a darti un senso di tutte le cose e del tuo essere le cose intese come esistenza di una vita universale, e tu stesso come componente di questa armonia e di questa vita. In questo senso la poesia come strumento di ricerca e di affermazione della libertà è esattamente una espressione di questo slancio che nessuna altra attività dell’essere umano può perseguire con la stessa intensità e con la stessa forza di scoperta e affermazione di se stesso. Si potrebbe intendere in questo modo questa mia riflessione che sto facendo, a proposito dei lavori di Antonio Pellegrino.Di tutto questo ci dà testimonianza una silloge che ci rende conto di un percorso di vita destinato a continuare.
Antonio Conte
Antonio Conte