E’ veramente per me un grande onore presentare questo lavoro del prof. Antonio Pellegrino, mio caro amico, collega e compagno di lavoro per molti anni nella scuola di Cerreto Sannita; ho accettato con piacere l’invito rivoltomi dall’amico e collega Pietro Mastrocola anche perché qui, a Massa ed a Faicchio è iniziata la mia carriera di docente di Materie letterarie con le prime supplenze.
Andando con la mente indietro nel tempo spesso ci rendiamo conto che molti ricordi vanno via via affievolendosi fino a scomparire del tutto e leggendo il libro di Antonio mi sono resa conto che è proprio il ricordo delle cose passate, o meglio, la capacità di dare forza e vigore ai nostri ricordi e di descriverli, che dà più senso alle nostre cose attuali, alla vita di ciascuno, logica evoluzione di ciò che siamo stati in anni ormai trascorsi. E’ questo, infatti, il senso fondamentale del lavoro che stiamo presentando il quale non nasce per caso, ma, come l’autore stesso sottolinea, “l’impresa narrativa di carattere sistematico” è giunta dopo lunghi anni di esercizio continuo ed insistente della poesia. Essa è stata a lungo cercata e finalmente, oggi, ha preso corpo: Antonio è riuscito a dare corpo a ciò che si portava dentro da anni.. Ma torniamo un istante al punto di partenza, cioè, alla poesia. Le prime raccolte in versi risalgono al 1994. “Esse ebbero il merito, dice l’autore, di mettermi a confronto prima con la parola intesa come essenza e poi con il mondo fuori di me”. “Poeta, sia pure in maniera acerba, artigianale, lo seppi diventare prima, mi veniva più spontaneo esserlo, era compatibile con la mia natura introversa, solitaria, perversa esploratrice di deserti, amante del raccoglimento, di quanto di sublime ti può condurre il silenzio […] L’attesa non è stata vana, quello che di me aspettavo mi ha raggiunto, mi si è reso visibile e ne odo la voce, mi parla continuamente e mi detta, mentre io, ormai, scrivo in maniera quasi automatica, il tempo mi scorre lungo le dita e si traduce in parole. Scopro soltanto adesso che l’esercizio continuo e sistematico della poesia mi è stato di guida in tante cose, mi ha abituato a vedere il verbo come evento, come atto creativo, me ne ha fatto cogliere le armonie, le essenze più nascoste, mi ha allenato ai difficoltosi percorsi dentro l’anima e mi ha aperto, finalmente, anche le porte della narrativa”. Nasce come poeta perché gli è più consono e spontaneo, ma io vorrei aggiungere che è anche conoscitore esperto di vari linguaggi non verbali, dalla fotografia, al disegno, alla pittura, al cinema, è un artista a 360°, insomma, e bisogna riconoscere che, in qualsiasi cosa si cimenti, riesce a produrre lavori unici e inimitabili. A questo punto, prima di illustrarvi il libro, ho pensato di leggervi una poesia proprio perché, come ho già detto, Antonio è, prima di tutto, poeta, anzi, trovo che rimanga tale anche nella prosa; nei racconti in cui si articola il libro, infatti, le descrizioni di persone, di luoghi e di fatti hanno sempre un non so che di poetico per la intensità di sentimenti veri ed autentici in essa racchiusi. Dunque, ho scelto quella intitolata “Alla mia bicicletta” tratta da “Coriandoli di immagini”:
Brilli nel sole d’agosto / che ricama riflessi / sui tuoi raggi argentei / cavallo dei miei sogni imbizzarriti / veloce fendi l’aria del bollente meriggio / nel solitario mio vagare. / Mi nascondo nell’armonioso sibilo della catena / spinta dal vorticoso ritmo dei pedali. / E batte nel mio ventre / la strada che freme… / Proiettata sull’asfalto / medito, ora, con la mia ombra, / appaiono oltre il manubrio, / verso l’orizzonte più lontano, / seni colorati di colline / sedimenti di ricordi antichi. / Ti cavalco libero nel vento, / con te scivolo verso il tramonto / e attendo un’altra luna.
La bicicletta è l’immagine che ritorna spesso in questi racconti, è il ricordo-simbolo dell’adolescenza che passa inesorabilmente e delle corse lungo il Volturno, fiume in cui molti possono intravedere per esempio il Titerno, il Calore o altri fiumi e ricordare la propria adolescenza, quando, negli anni 50/60, si era soliti, appunto, andarsi a tuffare nelle loro acque; in quegli anni, le piccole spiaggette dei nostri fiumi erano tutte… delle Miami “Breach…” come Antonio ama ricordare, scherzando sull’ortografia, nel testo. Altra immagine ricorrente è quella del treno, strumento di viaggio che da Amorosi lo accompagna non solo verso nuovi orizzonti lavorativi (il servizio militare, i fratelli lontani, il suo incarico al nord) ma lo introduce in un mondo ricco di stimoli culturali, umani e sociali di grande spessore che contribuiranno alla sua maturazione come persona, come docente, come artista. Dopo questa ampia premessa, vorrei passare a evidenziare le parti più significative del libro. Darò solo degli spunti, dei flash, con lo scopo di incuriosirvi e di stimolarvi a leggerlo subito, anche perché sarebbe impossibile, in poco tempo, soffermarsi più ampiamente, come meriterebbe questo pregevole lavoro, su ogni singolo racconto, tale è la densità e la pregnanza delle argomentazioni in esso contenute, anzi, chiedo venia all’autore se non sarò esaustiva, ma è stato veramente difficile, credetemi, farne una sintesi che non trascurasse qualche parte: a mio avviso bisognerebbe leggere con attenzione ogni singolo rigo per potere comprendere a fondo i vari messaggi racchiusi nel libro, è questo un invito a farlo anche perché si procede abbastanza rapidamente nella lettura tale è la scorrevolezza del periodare. Come dicevo, dunque, caratteristica peculiare di questo lavoro è la densità dei contenuti che si arricchiscono via via di richiami storici, filosofici, letterari, di notizie su usi e costumi, su tradizioni. Si snoda a partire dagli anni 40/60 fino ai nostri giorni, toccando e descrivendo le grandi trasformazioni sociali, fatti storici, politici, economici, eventi culturali, parallelamente agli sconvolgimenti avvenuti nella scuola, dai Decreti delegati alla Scuola dell’Autonomia, agli Istituti comprensivi e fino alla Riforma Moratti, tutti vissuti dall’Autore con grande coinvolgimento emotivo. In effetti questa “Vita in otto racconti” non è solo la vita di Antonio Pellegrino, articolata nelle sue tappe più significative, interessante per lo spessore etico e morale con cui è stata ed è vissuta giorno per giorno, ma è, nello stesso tempo, anche la vita di Amorosi, della Valtellina, della Valle Telesina, dell’Italia, del mondo: uno scrigno di ricordi in cui ognuno di noi può attingere notizie ed evocare eventi. Niente è casuale, la descrizione dei vari cambi di casa, ad esempio, agli occhi di qualcuno potrebbe apparire banale, ma, in effetti, essi rappresentano lo spunto, l’occasione per parlare di nuove conoscenze, di altri modi di vivere, di altre abitudini, dai giochi di strada di via Roma, ai pomeriggi e alle serate trascorse davanti alla televisione nella Taverna Giaquinto e in via Telese zona Vallone; quella scatola magica, con i suoi primi programmi, dalla TV dei ragazzi, ai vari Rischiatutto, al Festival di S. Remo, a Portobello, alle partite di calcio, entrando nelle case, comincia a cambiare le abitudini degli italiani, ma in quegli anni 50/60 essa era (rappresentava) momento di aggregazione, appuntamento a cui non si poteva mancare, “momenti magici di vivere insieme e condividere le cose” dice l’autore, insomma, spaccati di vita quotidiana che non sarebbero più tornati. Ancora il ricordo dell’esperienza nell’Azione Cattolica, luogo di vita, di condivisione di pensieri e di azioni, di giochi: calcio balilla, pin-pong, dama, scacchi e dei primi incontri amorosi. E poi la nascita del circolo CRAC scaturito dalla mente e dall’azione (cito testualmente) di un carismatico gruppo di amici, con l’obiettivo di accettare sfide politiche sganciati dalle logiche di partito… E poi, il sogno che svanisce… la delusione e il ritorno alle tante odiose convenzioni che ti costringono entro schemi rigidi fino a farti soffocare e che certamente sono sempre stati stretti al nostro Antonio, il quale, comincia a chiudersi in se stesso e ricorre sempre più alla sua cara bicicletta che gli consente di evadere oltre il “recinto”… oltre l’orizzontalismo che lo appiattisce. E siamo, poi, agli anni delle Brigate rosse, delle grandi encicliche, del Concilio Vaticano II, della guerra nel Vietnam, delle occupazioni universitarie, ed ancora alle prime letture impegnative (Laing, Camus, Pavese, Carretto, Don Milani) nelle quali l’autore si rifugia per superare in qualche modo la solitudine che lo attanaglia, egli si sente ormai “straniero” in terra natia e tale si definisce alla pagina 86 “In paese, da allora e fino a mentre scrivo, non mi vide più nessuno, diventai, per dolorosa scelta, straniero in terra natia, lasciai il mio mitico gruppo, lasciai la piazza, e mi legai sempre di più ad alcuni amici telesini”. Quindi la descrizione del lavoro svolto con alcuni amici telesini e di Castelvenere quando nel 1971 si mise in piedi nelle campagne di Massa di Faicchio una scuola di popolo destinata al recupero dei ragazzi svantaggiati nella scuola di Stato; esperienza quest’ultima improntata sul modello della Scuola di Barbiana e aperta a grandi dibattiti culturali su temi politici, teologici, economici e sociali. Arriva in questo stesso anno la laurea e poi, di lì a poco, la partenza per il servizio militare prima ad Avellino poi a Pordenone e, a seguire, il primo incarico nella scuola al nord, avvenimenti tutti descritti in “Memorie valtellinesi”: c’è qui la rievocazione ampia e articolata dei sentimenti provati nel lasciare il proprio paese e i propri affetti (esule in Valtellina): un passato denso di ricordi e il pensiero verso un futuro ancora vago, pieno di speranze, ma anche denso di timori, di incertezze, di insicurezze, di angoscia, di paura di non potercela fare da solo in un ambiente del tutto sconosciuto, ambiente descritto fin nei minimi particolari, altro spaccato di storia, di geografia, di usi e costumi, di amici che non saranno mai dimenticati. La descrizione e il ricordo di tante figure femminili, a partire da quella della madre e poi della signora Maria che gestiva la pensione in Valtellina, della bidella Silvia, di Francesca, di Isa, di Rosalba o più impersonalmente alle tante Lune, ognuna delle quali in un modo o nell’altro ha lasciato un segno indelebile nella sua anima contribuendo alla sua crescita interiore; tutto è descritto con estrema autenticità di sentimenti e fuori da ogni schema o luogo comune. Infine il ritorno a casa, contemplato nell’ultimo degli otto racconti, nel 1981. E’ questo il periodo in cui il bisogno di meditazione e di solitudine, utile per la ricerca della propria identità, si fa necessitante, è il periodo dei viaggi verso i cosiddetti sentieri dell’anima, negli spazi sconfinati, interminabili e ininterrotti che sono dentro ciascuno di noi, è questo un periodo di grande produzione artistica da Frammenti a Le parole del silenzio, da Archeologie di immagini a Coriandoli di immagini, tutte raccolte di poesie pubblicate in questi anni. Vorrei ribadire ancora una volta che tutto in questo libro è rievocato con magistrali tocchi di pennello e con una vivacità stilistica ed espressiva tale che sembra di essere lì a vivere in prima persona gli avvenimenti descritti, li vedi scorrere davanti agli occhi come sequenze cinematografiche e ne sei rapito». Concludo con una frase di Antonio che, con grande umiltà, all’inizio del libro dice: “Non è cosa facile dirsi ma io ci ho provato”. Credo che il “ci ho provato” vada sostituito con il “ci sono riuscito”.
Da qui il mio invito ad Antonio a dare libero sfogo alla sua penna di scrittore in modo da farci avere presto altri interessanti lavori, perché, certamente, questo è il momento più fertile per il suo estro creativo.
Massa di Faicchio, 14 giugno 2009
Prof.ssa Angiola De Lucia
Andando con la mente indietro nel tempo spesso ci rendiamo conto che molti ricordi vanno via via affievolendosi fino a scomparire del tutto e leggendo il libro di Antonio mi sono resa conto che è proprio il ricordo delle cose passate, o meglio, la capacità di dare forza e vigore ai nostri ricordi e di descriverli, che dà più senso alle nostre cose attuali, alla vita di ciascuno, logica evoluzione di ciò che siamo stati in anni ormai trascorsi. E’ questo, infatti, il senso fondamentale del lavoro che stiamo presentando il quale non nasce per caso, ma, come l’autore stesso sottolinea, “l’impresa narrativa di carattere sistematico” è giunta dopo lunghi anni di esercizio continuo ed insistente della poesia. Essa è stata a lungo cercata e finalmente, oggi, ha preso corpo: Antonio è riuscito a dare corpo a ciò che si portava dentro da anni.. Ma torniamo un istante al punto di partenza, cioè, alla poesia. Le prime raccolte in versi risalgono al 1994. “Esse ebbero il merito, dice l’autore, di mettermi a confronto prima con la parola intesa come essenza e poi con il mondo fuori di me”. “Poeta, sia pure in maniera acerba, artigianale, lo seppi diventare prima, mi veniva più spontaneo esserlo, era compatibile con la mia natura introversa, solitaria, perversa esploratrice di deserti, amante del raccoglimento, di quanto di sublime ti può condurre il silenzio […] L’attesa non è stata vana, quello che di me aspettavo mi ha raggiunto, mi si è reso visibile e ne odo la voce, mi parla continuamente e mi detta, mentre io, ormai, scrivo in maniera quasi automatica, il tempo mi scorre lungo le dita e si traduce in parole. Scopro soltanto adesso che l’esercizio continuo e sistematico della poesia mi è stato di guida in tante cose, mi ha abituato a vedere il verbo come evento, come atto creativo, me ne ha fatto cogliere le armonie, le essenze più nascoste, mi ha allenato ai difficoltosi percorsi dentro l’anima e mi ha aperto, finalmente, anche le porte della narrativa”. Nasce come poeta perché gli è più consono e spontaneo, ma io vorrei aggiungere che è anche conoscitore esperto di vari linguaggi non verbali, dalla fotografia, al disegno, alla pittura, al cinema, è un artista a 360°, insomma, e bisogna riconoscere che, in qualsiasi cosa si cimenti, riesce a produrre lavori unici e inimitabili. A questo punto, prima di illustrarvi il libro, ho pensato di leggervi una poesia proprio perché, come ho già detto, Antonio è, prima di tutto, poeta, anzi, trovo che rimanga tale anche nella prosa; nei racconti in cui si articola il libro, infatti, le descrizioni di persone, di luoghi e di fatti hanno sempre un non so che di poetico per la intensità di sentimenti veri ed autentici in essa racchiusi. Dunque, ho scelto quella intitolata “Alla mia bicicletta” tratta da “Coriandoli di immagini”:
Brilli nel sole d’agosto / che ricama riflessi / sui tuoi raggi argentei / cavallo dei miei sogni imbizzarriti / veloce fendi l’aria del bollente meriggio / nel solitario mio vagare. / Mi nascondo nell’armonioso sibilo della catena / spinta dal vorticoso ritmo dei pedali. / E batte nel mio ventre / la strada che freme… / Proiettata sull’asfalto / medito, ora, con la mia ombra, / appaiono oltre il manubrio, / verso l’orizzonte più lontano, / seni colorati di colline / sedimenti di ricordi antichi. / Ti cavalco libero nel vento, / con te scivolo verso il tramonto / e attendo un’altra luna.
La bicicletta è l’immagine che ritorna spesso in questi racconti, è il ricordo-simbolo dell’adolescenza che passa inesorabilmente e delle corse lungo il Volturno, fiume in cui molti possono intravedere per esempio il Titerno, il Calore o altri fiumi e ricordare la propria adolescenza, quando, negli anni 50/60, si era soliti, appunto, andarsi a tuffare nelle loro acque; in quegli anni, le piccole spiaggette dei nostri fiumi erano tutte… delle Miami “Breach…” come Antonio ama ricordare, scherzando sull’ortografia, nel testo. Altra immagine ricorrente è quella del treno, strumento di viaggio che da Amorosi lo accompagna non solo verso nuovi orizzonti lavorativi (il servizio militare, i fratelli lontani, il suo incarico al nord) ma lo introduce in un mondo ricco di stimoli culturali, umani e sociali di grande spessore che contribuiranno alla sua maturazione come persona, come docente, come artista. Dopo questa ampia premessa, vorrei passare a evidenziare le parti più significative del libro. Darò solo degli spunti, dei flash, con lo scopo di incuriosirvi e di stimolarvi a leggerlo subito, anche perché sarebbe impossibile, in poco tempo, soffermarsi più ampiamente, come meriterebbe questo pregevole lavoro, su ogni singolo racconto, tale è la densità e la pregnanza delle argomentazioni in esso contenute, anzi, chiedo venia all’autore se non sarò esaustiva, ma è stato veramente difficile, credetemi, farne una sintesi che non trascurasse qualche parte: a mio avviso bisognerebbe leggere con attenzione ogni singolo rigo per potere comprendere a fondo i vari messaggi racchiusi nel libro, è questo un invito a farlo anche perché si procede abbastanza rapidamente nella lettura tale è la scorrevolezza del periodare. Come dicevo, dunque, caratteristica peculiare di questo lavoro è la densità dei contenuti che si arricchiscono via via di richiami storici, filosofici, letterari, di notizie su usi e costumi, su tradizioni. Si snoda a partire dagli anni 40/60 fino ai nostri giorni, toccando e descrivendo le grandi trasformazioni sociali, fatti storici, politici, economici, eventi culturali, parallelamente agli sconvolgimenti avvenuti nella scuola, dai Decreti delegati alla Scuola dell’Autonomia, agli Istituti comprensivi e fino alla Riforma Moratti, tutti vissuti dall’Autore con grande coinvolgimento emotivo. In effetti questa “Vita in otto racconti” non è solo la vita di Antonio Pellegrino, articolata nelle sue tappe più significative, interessante per lo spessore etico e morale con cui è stata ed è vissuta giorno per giorno, ma è, nello stesso tempo, anche la vita di Amorosi, della Valtellina, della Valle Telesina, dell’Italia, del mondo: uno scrigno di ricordi in cui ognuno di noi può attingere notizie ed evocare eventi. Niente è casuale, la descrizione dei vari cambi di casa, ad esempio, agli occhi di qualcuno potrebbe apparire banale, ma, in effetti, essi rappresentano lo spunto, l’occasione per parlare di nuove conoscenze, di altri modi di vivere, di altre abitudini, dai giochi di strada di via Roma, ai pomeriggi e alle serate trascorse davanti alla televisione nella Taverna Giaquinto e in via Telese zona Vallone; quella scatola magica, con i suoi primi programmi, dalla TV dei ragazzi, ai vari Rischiatutto, al Festival di S. Remo, a Portobello, alle partite di calcio, entrando nelle case, comincia a cambiare le abitudini degli italiani, ma in quegli anni 50/60 essa era (rappresentava) momento di aggregazione, appuntamento a cui non si poteva mancare, “momenti magici di vivere insieme e condividere le cose” dice l’autore, insomma, spaccati di vita quotidiana che non sarebbero più tornati. Ancora il ricordo dell’esperienza nell’Azione Cattolica, luogo di vita, di condivisione di pensieri e di azioni, di giochi: calcio balilla, pin-pong, dama, scacchi e dei primi incontri amorosi. E poi la nascita del circolo CRAC scaturito dalla mente e dall’azione (cito testualmente) di un carismatico gruppo di amici, con l’obiettivo di accettare sfide politiche sganciati dalle logiche di partito… E poi, il sogno che svanisce… la delusione e il ritorno alle tante odiose convenzioni che ti costringono entro schemi rigidi fino a farti soffocare e che certamente sono sempre stati stretti al nostro Antonio, il quale, comincia a chiudersi in se stesso e ricorre sempre più alla sua cara bicicletta che gli consente di evadere oltre il “recinto”… oltre l’orizzontalismo che lo appiattisce. E siamo, poi, agli anni delle Brigate rosse, delle grandi encicliche, del Concilio Vaticano II, della guerra nel Vietnam, delle occupazioni universitarie, ed ancora alle prime letture impegnative (Laing, Camus, Pavese, Carretto, Don Milani) nelle quali l’autore si rifugia per superare in qualche modo la solitudine che lo attanaglia, egli si sente ormai “straniero” in terra natia e tale si definisce alla pagina 86 “In paese, da allora e fino a mentre scrivo, non mi vide più nessuno, diventai, per dolorosa scelta, straniero in terra natia, lasciai il mio mitico gruppo, lasciai la piazza, e mi legai sempre di più ad alcuni amici telesini”. Quindi la descrizione del lavoro svolto con alcuni amici telesini e di Castelvenere quando nel 1971 si mise in piedi nelle campagne di Massa di Faicchio una scuola di popolo destinata al recupero dei ragazzi svantaggiati nella scuola di Stato; esperienza quest’ultima improntata sul modello della Scuola di Barbiana e aperta a grandi dibattiti culturali su temi politici, teologici, economici e sociali. Arriva in questo stesso anno la laurea e poi, di lì a poco, la partenza per il servizio militare prima ad Avellino poi a Pordenone e, a seguire, il primo incarico nella scuola al nord, avvenimenti tutti descritti in “Memorie valtellinesi”: c’è qui la rievocazione ampia e articolata dei sentimenti provati nel lasciare il proprio paese e i propri affetti (esule in Valtellina): un passato denso di ricordi e il pensiero verso un futuro ancora vago, pieno di speranze, ma anche denso di timori, di incertezze, di insicurezze, di angoscia, di paura di non potercela fare da solo in un ambiente del tutto sconosciuto, ambiente descritto fin nei minimi particolari, altro spaccato di storia, di geografia, di usi e costumi, di amici che non saranno mai dimenticati. La descrizione e il ricordo di tante figure femminili, a partire da quella della madre e poi della signora Maria che gestiva la pensione in Valtellina, della bidella Silvia, di Francesca, di Isa, di Rosalba o più impersonalmente alle tante Lune, ognuna delle quali in un modo o nell’altro ha lasciato un segno indelebile nella sua anima contribuendo alla sua crescita interiore; tutto è descritto con estrema autenticità di sentimenti e fuori da ogni schema o luogo comune. Infine il ritorno a casa, contemplato nell’ultimo degli otto racconti, nel 1981. E’ questo il periodo in cui il bisogno di meditazione e di solitudine, utile per la ricerca della propria identità, si fa necessitante, è il periodo dei viaggi verso i cosiddetti sentieri dell’anima, negli spazi sconfinati, interminabili e ininterrotti che sono dentro ciascuno di noi, è questo un periodo di grande produzione artistica da Frammenti a Le parole del silenzio, da Archeologie di immagini a Coriandoli di immagini, tutte raccolte di poesie pubblicate in questi anni. Vorrei ribadire ancora una volta che tutto in questo libro è rievocato con magistrali tocchi di pennello e con una vivacità stilistica ed espressiva tale che sembra di essere lì a vivere in prima persona gli avvenimenti descritti, li vedi scorrere davanti agli occhi come sequenze cinematografiche e ne sei rapito». Concludo con una frase di Antonio che, con grande umiltà, all’inizio del libro dice: “Non è cosa facile dirsi ma io ci ho provato”. Credo che il “ci ho provato” vada sostituito con il “ci sono riuscito”.
Da qui il mio invito ad Antonio a dare libero sfogo alla sua penna di scrittore in modo da farci avere presto altri interessanti lavori, perché, certamente, questo è il momento più fertile per il suo estro creativo.
Massa di Faicchio, 14 giugno 2009
Prof.ssa Angiola De Lucia