Ad un anno dalla lettura di Frammenti dopo quella altrettanto appagante di Le Parole del Silenzio, non posso che confermare il mio primitivo e spontaneo personale giudizio e piacere, che mi suggerivano di annotare: - Non m’accadeva da tempo di incontrarmi con una poesia così intimista, così vera, così accattivante. – e anche: -… Anziché trattenermi al commento… ho preferito sottolineare gli aspetti esteriori che divengono interiorità, le quali, in libertà, depositate nelle parole, si fanno suono e vita anche nell’animo del lettore. E al lettore rivivono dentro con la stessa passione ed empito con cui sono germogliate nel cuore del poeta, a cui, prima, gli si sono fatte parole per la memoria e per il colloquio con se stesso, poi con l’altro da s’. Per esso egli, alla silloge, premette una guida, quale penso sia la “sua” Presentazione. Quei componimenti sono, dice, il suo modo, ossia lo specchio del suo parlare in versi, che non possono pure avere un loro ritmo, e con gli stessi ribadisce: io vi parlo parlandomi. E aggiunge: la raccolta penso che esaurisca da sola un mio momento che vada trasmessa al lettore nel suo insieme evocativo, insomma allo stato grezzo, nella sua stessa radice di istinto e di immediatezza. E’ il suo confessare come gli nasca dentro la visione del sé, spettro della sua vita in solitudine, il tema e la sorgente predominanti della poesia di Antonio, nella quale non si suggella, anzi, a modo suo, ne evade, per trasmettere il suo messaggio interiore pagina dopo pagina. Dal Matese che gli si erge alla vista spira un vento col quale Volano per l’aria parole / veloci come il pensiero / seminano scompiglio / in un cuore tradito dagli eventi / … mettono a nudo sentimenti / arcaici più del tempo / … e grido in questo vento la mia vita / persa fra le foglie dei robusti olmi, / che lamentano / il turbinio tenebroso della terra, / raccolgono in un’ampolla lacrime, / sublimazioni di angosce antiche, / evaporazioni dolorose di desideri latenti. / In questo tramonto calante / di quest’ultimo orizzonte / fauni soffi captano anche i più residui fragori. / E cala il cosmico silenzio. In questo incipit della raccolta, Il Matese in Parole, da cui cito, Antonio vi squaderna, solitario e sofferente, il suo pensiero e sentire, riandando e riannodando il passato – quella montagna è molto del nostro passato remoto – al presente con l’uso di voci rare e dotte, sentimenti arcaici più del tempo, veli eterei come l’anima, turbinio tenebroso, raccolgono in un’ampolla lacrime, sublimazioni di angosce antiche, desideri latenti, fauni soffi, cosmico silenzio, superficie dell’anima. Ombre sul Matese, la lirica che segue, non è meno piena di sensazioni forti a conferma della sua ispirazione. Apre con le mie narranti solitudini / … sono l’alcova dei pensieri, / che orgasmano idee e progetti, /… compagna delle sublimazioni più alte, / confine dei miei confini, / … cime eterne / fatte di roccia meno dura d’ogni cuore, / su cui rimangono scolpite le mie parole, calcareizzatesi / fra il variegato avvicendarsi delle umane cose. Al di là del significante, il penultimo verso, fa parte forse del grezzo? Si snodano ancora parole, pensieri sensazioni: … a silenzi di venti… rispondono echi ancestrali / di grida contratte / emergenti da anfratti cavernosi / dell’anima rapita. E, solitari, due versi scolpiti: Spezzetto frammenti di ostie / mentre sgrano rosari che appaiono rifugio dalla solitudine, che però ritorna prepotente subito dopo: e fendo lo spazio cosmico / d’una solitudine senza più confini. Ma eccola, in Fraseggi di Cieli, esplicita la sua risposta a chi gli chiede che cosa essa sia per lui: …ti rispondo che / essa è la mia compagna, / essa è il mio tu, l’essenza di me / la radice della mia origine / il porto della mia quiete, / la meta del mio finale destino. E i versi, - frutto del mio tempio - sono, pagina dopo pagina, figli della solitudine nella quale Antonio vive, quale sua scelta, o della sorte, che, poeticamente traduce in vocazione, quasi chiamato e risoluto a vivere con se stesso, dentro se stesso. La solitudine gli è divenuta luogo, nel quale non si macera, ma che lo avvolge nel silenzio fonte di pensiero e di non mute parole dell’anima, ma che si fanno libere strofe e libero ritmo di lui individuo, al quale inni solitari di pensieri forti sono là a svelamento del sé nella suggestione del luogo appartato, quasi monacale, che altri rifuggono, perché sito di rinunce e privazioni. A conferma il settenario finale di E… la Sannita Gloria, canto alla memoria che gli arcaici sentieri del Matese, gli suggeriscono: Si sente ora un sordo silenzio: / gli eroi tacciono / muoiono le fedi, / il progresso avanza / fra falsi miti di potenza: / anche i ricordi si annebbiano / fra i languori del nulla. Dalla solitudine al nichilismo? Il passo può essere breve. Ma quegli arcaici sentieri, i quali a me piacciono tanto anche per quel che vi ho riconosciuto e scritto, ancora ci sono per tutto il Tifernus mons, non modificati nel percorso, e la memoria la conservano, e chi l’ama la storia, proprio quella, può andare a cercare e a leggere su pietre sparse dalle ere geologiche a quelle poste dai Pentri, per i monti, soprattutto per quelli a vista delle piane fluviali, a difesa del proprio popolo forte e deciso, e delle sedi, i vicus e i pagus, e a conservare in necropoli i resti dei propri combattenti caduti in aspre battaglie e in tombe solitarie i capi. In qualche canto si avverte un pessimismo latente come quando, seguendo un volo di farfalle, le vede … corona d’una solitudine / i cui confini sono inferiori solamente / al vuoto spettrale della morte. Invece, rivolgendosi al suo Campanile: … Avverto la tua mole / come incombenza su di me del tempo / e… come te / provo a guardare in alto verso il cielo. Al lettore non leggo Altari, perché sia lui a sentirne la singolarità del pensiero ed anche il senso della estraneità alla comune considerazione dell’altare come ara sacrificale, in ogni tempo e per tutte le fedi religiose; e segnalo altrettanto per la singolarità e la libertà di dire Quale Giustizia, l’attimo solo per scriverne il titolo e gli ultimi due versi: C’è bisogno d’un crocefisso alle pareti / per credere? Davanti a I Templi di Paestum sembra risorgere il piacere di vivere, anche se in un tempo lontano, con la vis della poesia: Navigo finalmente il tempo / sento l’odore del passato: / evaporando improvvisamente / dai resti miserevoli del presente / risorgo nell’infinitudine / di cieli marmorei, trasparenti. Le mie parole, certo, non esauriscono il discorso di poter leggere e dire del mondo poetico di Antonio Pellegrino. L’intimo suo che vi svela ammantato di parole, non poche, patrimonio della sua cultura classica, il quale deposita nei versi idee, sensazioni, visioni, pulsioni e un che di antico che gli scorre per le vene, non celato dal nuovo prepotente che pure lo coinvolge. E’ poesia viva, con sentimenti al limite, in versi e strofe, che sempre si rinnovano (in Annuario 2004/2005, editrice ASMV, Piedimonte Matese - CE -, pp. 315/318).
Domenico Loffreda
Domenico Loffreda